Partito democratico e unità europea

Gli eventi bellici in Medio Oriente mettono a nudo molte questioni. Innanzi tutto la debolezza della politica in questa fase storica e il vuoto che lascia, in questo caso riempito dalle armi, in altri dalle contestazioni protestatarie. Si tratta di una questione centrale anche per noi europei, e non solo perché l’Europa subisce l’ennesimo conflitto alle porte di casa senza avere la forza politica di intervenire, salvo per l’importante conferenza sul Libano del prossimo mercoledì a Roma. Ma anche perché questa debolezza della politica, a cui si surroga solo temporaneamente con l’inventiva personale, come nel caso che abbiamo appena citato, investe anche la stessa costruzione europea – come testimonia l’attuale situazione di stallo del processo di costituzionalizzazione avviato dal Trattato – e dunque riguarda anche la cultura politica della sinistra continentale, che sembra al di sotto delle necessità e priva di indicazioni fruttuose per riempire questo vuoto. Con difficoltà aggiuntive per chi – è il caso italiano e del costruendo Partito democratico – avrebbe invece necessità di avere una forte sponda europea che riduca e non amplifichi le difficoltà di superare vecchi confini e rifondare la propria politica. Perché le attuali difficoltà italiane di collocazione del Partito democratico diventano in tale contesto europeo di una fragilità culturale quasi paralizzante. Allora forse è opportuno riprendere l’analisi sulle attuali difficoltà che incontra il cantiere dell’Europa come primo passo e necessaria condizione per tale rifondazione.
Partendo magari proprio da dove ci si è fermati: il Trattato costituzionale proposto dalla Convenzione europea, arenatosi dopo il “no” al referendum francese. Esso sembra oggi più parte del problema che non della soluzione. E’ un affermazione eretica, che va spiegata. Si tratta infatti di un buon Trattato. La questione è però forse la filosofia di fondo che lo ispira: essa sembra non più capace di interpretare il nuovo mondo di oggi. Pare infatti essere figlia piuttosto di un’altra fase politica, quella degli anni Novanta quando, in un mondo che usciva dalle certezze della Guerra Fredda e divenuto subitaneamente magmatico, la sinistra europea ricorse a una concezione normativa della politica. Tracce se ne trovano per esempio nelle pagine del penultimo libro di Massimo D’Alema “Oltre la paura”, scritte nel 2002 e assai segnate da quella ispirazione. E in un certo senso ne è prova anche l’affanno normativo del susseguirsi sempre più incalzante di Trattati europei: dopo i trent’anni intercorsi tra quelli di Roma del 1957 e l’Atto Unico del 1986 – che costituisce comunque il suggello dei trenta anni di funzionalismo che si compiono nel mercato unico – abbiamo il Trattato di Maastricht del 1992, poi subito quello di Amsterdam del 1997, poi Nizza nel 2001 e infine il Trattato costituzionale del 2003. In quella fase la sinistra ritenne di risolvere con una robusta dose di normativismo la questione epocale di come regolare il mercato.
Si era negli anni Novanta, la presidenza Clinton pareva indicare la possibilità di una globalizzazione “di sinistra” e il ciclo socialdemocratico in Europa sembrava offrire la necessaria sponda. Ne uscirono anche iniziative adeguate, come l’intervento nel Kosovo: una guerra giusta che costituisce precedente sia per la soggettività politica dell’Europa sia per fare argine ad altri interventi di segno diverso, come per esempio quello Usa in Iraq.
Oggi però siamo in una fase del tutto diversa, fosse solo perché viene dopo l’11 settembre 2001. Oggi il normativismo è uno strumento spuntato rispetto all’irrompere solipsistico della dimensione della “potenza” nel mondo contemporaneo: una “potenza” che a volte è rappresentata dal terrorismo globale e quindi da una risposta unilaterale a esso, a volte dall’arrivo di nuovi soggetti come Cina e India in un’arena internazionale modellata su assetti precedenti, a volte perfino dal prevalere del particolarismo identitario in una globalizzazione che è segnata da una dimensione politica corporativa oramai predominante, globale solo negli effetti unidirezionali che provengono da quell’occidente ancora per poco centro del mondo.
Oggi riproporre come questione centrale per l’Europa il Trattato costituzionale è dunque un errore. In questo senso esso è parte del problema e non della soluzione. Per riprendere la sempre più necessaria costruzione di un’Europa politica allora è forse più utile riprendere la strada del funzionalismo, che tanto ha contribuito nel passato a costruire pragmaticamente l’Europa di oggi. Un funzionalismo però non riservato, come è stato per cinquant’anni, a materie economiche. La sinistra infatti deve superare il suo persistente vizio di economicismo. Esso si è rivelato – come già intuiva Gramsci – un fardello nel ventesimo secolo, ma potrebbe essere veleno mortale nel ventunesimo, perché il nostro secolo attraversa una fase costituente segnata da una globalizzazione che per la sua unidirezionalità produce un proliferare di vertenze identitarie. Tale funzionalismo potrebbe invece esercitarsi su questioni interne come la cittadinanza, l’immigrazione, i diritti sociali – magari usando l’articolo “passerella” del Trattato esistente, che permette il passaggio dal terzo pilastro intergovernativo al primo che è invece comunitario – e contemporaneamente su questioni esterne, in primis la politica estera. Facendo leva sulle cooperazioni rafforzate, ma non solo: un primo esempio potrebbe essere – se politicamente e pubblicamente contestualizzato in questo modo, soprattutto nelle altre capitali europee – proprio la Conferenza sul Libano organizzata dal governo italiano a Roma mercoledì 26 luglio.
Si tratta di un passo difficile e di una rottura con un modo di pensare la cui forza sta diventando inversamente proporzionale al suo divenire vuota ripetizione di un europeismo di maniera: più cresce tale mantra, più questo è il segno della sua crisi. Perché l’Europa, come diceva Chabod, nasce politica, e dunque solo attraverso una battaglia politica può crescere e rafforzarsi. Una battaglia politica che adesso la sinistra europea deve saper lanciare se vuole rifondare la politica in senso cosmopolita, e così segnare il prossimo decennio come seppe fare negli anni Novanta.