I sacerdoti della crisi

Tutto il dibattito sulla cosiddetta crisi europea del debito sembra mostrare l’estremo limite di un curioso fenomeno linguistico, che riguarda le espressioni e le immagini usate per parlare di borse, mercati, istituzioni finanziarie e del loro rapporto con la politica e gli stati. Invece di termini tecnici, asettici, conformi alla pretesa di neutralità che la finanza avanza, ci si imbatte in espressioni che sembrano prese di peso da testi sacri e trattati di teologia e morale.
Da mesi si discute di paesi “virtuosi” e “viziosi”, e se questi ultimi meritino o meno di essere “salvati”. Tutti sono continuamente in attesa del “responso” o del “verdetto” dei mercati. I mercati, a loro volta, somigliano a dei gelosi che pretendono sempre nuovi olocausti per placare la loro terribile collera. Esigono manovre “lacrime e sangue” (non molto distanti dall’infernale “pianto e stridore di denti”), “rigore”, “austerità”. E se la collera non viene placata, ecco apparire terribili flagelli e distruzioni, come la “piaga” della disoccupazione.
Allora si diffonde il millenarismo: la fine dei tempi è vicina, ci saranno corse alle banche, default, fallimenti a catena, svalutazioni, dazi doganali e infine l’anatema più terribile di tutti, la recessione. Ma se il sacrificio sarà gradito, allora i mercati ricopriranno dei loro doni tutti coloro che hanno avuto fede e chi ha investito sette riceverà settanta volte sette.
Ma come scrutare negli impenetrabili abissi del volere divino? Per fortuna c‘è un intero clero che intercede per noi presso la scostante divinità. A esso, cioè alla clemenza della Banca centrale europea, ci appelliamo perché, nella sua infinita misericordia, si degni di accettare i nostri titoli del tesoro, che ormai, per via dei nostri peccati, i mercati disdegnano. In cambio però i sommi sacerdoti ci ingiungono di attuare alla lettera i “sacrifici” prescritti.
Non è casuale che si adotti un tale linguaggio. La tendenza a rivestire le proprie azioni e discorsi di un carattere sacrale è tipica di ogni potere. Se in passato fu lo stato ad assumere per certi aspetti il carattere di un dio in terra e a servirsi di una teologia politica (come mostrò, tra gli altri, il giurista tedesco Carl Schmitt), ora che veniamo da un trentennio in cui la finanza ha assunto un ruolo predominante a livello internazionale, è comprensibile che questa abbia adottato i medesimi strumenti.
Ma allora, se è vero che il lessico teologico secolarizzato ha la funzione principale di sottrarre i propri principi alla discussione, per avvolgere nelle nebbie del mistero e dell’insindacabilità le proprie azioni, risulta tanto più intollerabile la retorica della trasparenza con cui la politica viene regolarmente sferzata dagli agitatori del turibolo del mercato.
Bisogna allora denunciare con forza la pretesa dei mercati e dei loro rappresentanti di incarnare un ordine naturale e necessario e presentare le loro posizioni per quello che sono: opinioni che, pur muovendo dall’analisi di determinati dati di fatto, sono, nell’analisi di tali dati e sopratutto nelle proposte, puramente politiche. E come tali possono e devono essere criticate da chi voglia un mondo diverso, o almeno che i sacerdoti di questo mondo siano trattati con minore devozione.