Un nuovo ordine mediorientale

A lungo ci siamo abituati a percepire il Medio Oriente come un universo statico, sclerotizzato in alleanze consolidate e in ruoli fissi e immutabili. In parte è dovuto a una effettiva immobilità di quel mondo, seppur solo recente a ben vedere, e in parte è effetto degli schemi – fatalmente semplificativi – attraverso i quali ci siamo adagiati a interpretare eventi che, se visti più da vicino, mostrano una complessità tale da rendere il vicino Oriente sfuggente e riottoso a farsi ridurre ai desiderata occidentali. Questo impasto di abitudini mentali e pigrizie intellettuali rischia tuttavia di non farci cogliere un cambiamento epocale in corso in quelle terre, che non riguarda solo lo scacchiere diplomatico, ma chiama in gioco anche le scelte e le non-scelte del mondo occidentale, quelle attuali e quelle future. Quello che sta accadendo è la revisione delle tradizionali alleanze e il disegnarsi di nuove linee di frattura, del tutto inedite, stando almeno alla storia recente.

Per cominciare, sarà utile mettere in fila alcuni fatti salienti che segnano le tappe di questa rivoluzione che ha avuto un punto di svolta nell’accordo di Ginevra del novembre scorso tra Iran e i paesi del gruppo “5+1” sul programma nucleare di Teheran, fatto che inaspettatamente ha sciolto il gelo tra Iran e Usa. Da qui a luglio il negoziato si avvia alla tappa decisiva con le diplomazie al lavoro, ma anche con molti nemici altrettanto impegnati a far fallire l’intesa e non ancora rassegnati all’idea che tra Iran e Usa sia scoppiata la pace.

Potremmo allora cominciare da un giallo, che letto oggi retrospettivamente risulta il primo manifestarsi dei cambiamenti di cui stiamo parlando. Nel 2011 la stampa americana svela un piano iraniano per l’assassinio di  Adel al-Jubeir, ambasciatore Saudita a Washington, brillante diplomatico e gran tessitore della relazione tra il suo paese e gli Usa, oltre che tenace fomentatore di campagne anti-iraniane. Il piano prevedeva l’eliminazione del diplomatico saudita con un esplosivo posizionato in un noto ristorante. Dei due attentatori, uno riesce a fuggire, ma l’altro (un iraniano naturalizzato americano), viene arrestato e racconta che il piano prevedeva il coinvolgimento di un gruppo militare legato agli Zetas, un cartello della droga messicano, che sarebbe stato contattato dai presunti intermediari di Teheran. L’operazione viene tuttavia bloccata cinque mesi prima da FBI e DEA che confermano il coinvolgimento iraniano.

E qui comincia il mistero: i sauditi reagiscono blandamente, mentre gli iraniani rigettano con fermezza ogni accusa. A una lettura corriva sembrerebbe di vedere il ripetersi del solito copione: gli Usa che avversano il piano nucleare iraniano, e Teheran che reagisce colpendo attraverso l’ambasciatore uno storico nemico (i sauditi), ma in territorio americano, giusto per mandare un avvertimento alla Casa Bianca. Le cose tuttavia sono più complesse. Da più parti sono stati sollevati dubbi sull’attendibilità dell’attentato sventato, a cominciare dai personaggi improbabili che avrebbero dovuto metterlo in atto, per non parlare del presunto coinvolgimento del cartello messicano della droga, un mondo solitamente estraneo alle intricate trame mediorientali. Il sospetto è che si tratti di uno specchietto per le allodole o, come lo chiamano gli esperti, un false flag, un’operazione cioè realizzata dai sauditi ma per attribuirla agli iraniani con lo scopo di incattivire i rapporti tra Washington e Teheran e spingere Obama a un maggiore interventismo nella regione, a fronte della nuova strategia della Casa Bianca che dal Medio Oriente invece si sta progressivamente sfilando.

Dopo due anni la scena cambia, non per i protagonisti, ma per l’intensità dello scontro. Infatti, al presunto attentato di Washington va accostato il duplice attentato del novembre scorso nel cuore di Beirut, dove due libanesi si sono fatti esplodere  nei pressi dell’ambasciata iraniana, nel quartiere a maggioranza sciita di Bir Hasan, facendo 26 morti e oltre 146 feriti, un massacro proprio alla vigilia del vertice di Ginevra dedicato al nucleare iraniano. Meccanicamente, ma con il malcelato intento di sopire le conseguenze del nuovo scenario, Teheran ha attribuito la responsabilità dell’attentato a Israele, ma Hezbollah ed altri ambienti sciiti hanno indicato nei paesi del Golfo la regia dell’attentato, dando credito alla rivendicazione delle Brigate Abdullah Azzam, connesse con Al Qaida, le cui intenzioni erano colpire Hezbollah, lo storico alleato di Teheran, per la sua decisione di inviare uomini in Siria a sostegno di Assad.

Non manca una punta di giallo nemmeno in questo episodio. Risulta infatti che il capo del gruppo autore dell’attentato, l’emiro saudita Majid al Majid, arrestato a Sidone dai servizi segreti, sia morto in circostanze sospette a Beirut poco dopo la cattura. Le autorità parlarono di un blocco renale, ma sono in pochi a crederci. Il fatto è che al-Majid avrebbe potuto raccontare molto sui veri mandanti dei numerosi attentati che hanno insanguinato negli ultimi due anni il Libano e che hanno avuto come obiettivi Hezbollah, Teheran (punti di riferimento del mondo sciita),  le frange sciite in Iraq e anche – cornice della guerra siriana – lo stesso Assad  che guida un paese a maggioranza sunnita. In ogni caso i due episodi sembrano le tappe di una escalation nei rapporti tra le potenze mediorientali che dalle scaramucce e i false flag arriva agli attentati veri e propri, se possibile anche nella durezza dei conflitti interni di altri paesi, come in Iraq e in Siria.

Cosa sta accadendo? Semplicemente succede che l’Iran da acerrimo nemico è diventato un partner importante degli Usa per il disarmo, cosa che ha gettato scompiglio non solo tra i falchi occidentali e israeliani, ma soprattutto nel variegato campo sunnita che a sua volta sta reagendo, anche se non in maniera compatta. Sembrerebbe dunque che al cambiamento della leadership americana e del suo ruolo ordinatore e di deterrenza corrisponda l’emergere delle potenze regionali dal cui confronto verrà fuori il nuovo ordine mediorientale. Una tappa significativa di questa trasformazione è certamente l’elezione di Rohani e il suo subentrare alla presidenza al posto di Ahmedinejad, come testimonia la cordiale telefonata nell’autunno scorso tra il nuovo presidente iraniano e Barack Obama, poi riverberata dai social network, seguita da varie dichiarazioni pubbliche di apertura, dalle quali si evinceva per altro che nel dialogo Rohani è sostenuto dalla massima autorità iraniana, Ali Khamenei. Lo stesso presidente americano non mancò di enfatizzare il nuovo corso delle relazioni con Teheran. “Quella con il presidente iraniano Hasan Rohani – disse Obama in conferenza stampa – è stata la prima comunicazione tra i nostri due Paesi dal 1979: è l’indicazione che stiamo andando verso il superamento delle difficoltà affrontate nel corso della storia. Credo ci siano le basi per una soluzione della questione del nucleare”.

Il dialogo tra Usa e Iran, che di lì a poco avrebbe portato agli accordi di Ginevra, spezza la storica intesa d’interessi che legava da un lato Usa e Israele e dall’altro Usa e Arabia Saudita, aprendo nuovi scenari, facendo di Teheran un elemento di possibile stabilizzazione nella regione e seminando il panico tra i tradizionali alleati, specie i sauditi, che da Carter in poi, passando per i due Bush e Clinton, si erano abituati a sentir definire dagli americani l’Iran come “Asse del Male”.

Va forse ricordato che il ruolo statunitense nella regione risale alla seconda guerra mondiale, quando gli americani subentrarono al predominio inglese e francese fissato nel 1916 con gli accordi di Sykes-Picot. Protezione militare in cambio di petrodollari, uno scambio con l’Arabia Saudita che ha segnato praticamente la politica energetica mondiale del secolo scorso tra accordi commerciali e guerre nel Golfo, con gli Usa sempre pronti a proteggere l’alleato, contro l’Iran così come contro l’Iraq. Quell’intesa storica, che finora ha retto nonostante il terribile sospetto che parte delle élite saudite abbiano finanziato e appoggiato il terrorismo jihadista e nonostante gli Usa abbiano sempre sostenuto Israele, ora sembra depotenziarsi di fronte all’evolvere degli eventi.

Senza gesti eclatanti, la Casa Bianca disegna un nuova rotta negli equilibri geostrategici e disorienta anche i vecchi alleati. E dire che Obama non ha mai nascosto le sue intenzioni, come si capì nello storico discorso all’Università del Cairo del giugno 2009 quando disse: “Invece di rimanere intrappolati nel passato, il mio paese è pronto ad andare avanti. Il confronto sul controverso programma nucleare iraniano è a una svolta decisiva. Riaffermo l’impegno dell’America per un mondo senza armi nucleari, ma ogni nazione, Iran compreso, dovrebbe avere diritto ad avere accesso al nucleare per scopi pacifici, se rispetta gli obblighi del Trattato di non proliferazione nucleare”. Merito anche di Rohani che pare aver raccolto l’invito di Obama nel suo discorso di insediamento (“Se voi aprirete il pugno, noi saremo pronti a stringervi la mano”) e che ha firmato l’accordo per fermare l’arricchimento dell’uranio, ricevendo in cambio a Ginevra la prospettiva di ricevere risorse vitali per un’economia, quella iraniana, vicina al collasso a causa delle sanzioni.

Nel volgere di pochi anni la scena mediorientale è cambiata radicalmente e, come ha scritto Giulio Sapelli, siamo piuttosto di fronte al “Rischio di una guerra civile islamica” che potrebbe vedere contrapposti non solo i capisaldi politici del mondo sciita e sunnita (Iran e Arabia Saudita), ma anche diverse fazioni sunnite (Arabia Saudita e Qatar) e vari gruppi economici che si affrontano nel quadro dei conflitti all’interno dei diversi paesi. Fino a qualche anno fa per alcuni sembrava possibile uno scontro di civiltà, come quello preconizzato da Samuel Huntington, tra Occidente e mondo islamico, un pericolo oggi sostituito dal rischio ben più delineato di uno scontro tutto interno al mondo islamico e capace di estendersi anche a diverse regioni africane.

In questo nuovo scenario acquistano un senso il giallo dell’attentato di Washington, gli attacchi alle sedi iraniane all’estero, le accuse dei jihadisti sunniti a Hezbollah (chiamato polemicamente “il partito di satana”) e anche la diffidenza senza precedenti tra Riad e Washington. Non a caso, i segnali arrivati ai sauditi che a Washington qualcosa fosse cambiato risalgono anche a prima dell’intesa con Teheran. Sono molti i fronti su cui la strategia americana è mutata vistosamente. A Riad hanno capito che il vento è girato anche quando la Casa Bianca nel settembre scorso ha rinunciato a un intervento contro il regime siriano di Bashar el Assad. A quel punto i sauditi si sono visti crollare le antiche certezze. Fino a poco tempo fa il corso dei conflitti regionali sembrava procedere a favore di Riad: dal ridimensionamento delle aspettative delle “primavere arabe” alle sconfitte dei Fratelli Musulmani in Egitto, dalle difficoltà gravi dei due nemici storici Iran e Iraq, fino a quella che sembrava l’imminente fine del regime a guida alawita di Assad. Molti di questi sogni sauditi si sono infranti, soprattutto per mano americana, come è accaduto con la rilegittimazione di Assad e del suo sponsor Putin attraverso l’accordo sulla distruzione delle armi chimiche, fino a consentire indirettamente al dittatore siriano di vedere oggi il conflitto interno al suo paese volgere inaspettatamente a suo favore, coi rivoltosi in ritirata, come è appena accaduto a Homs.

L’ ammorbidirsi della deterrenza statunitense nello scacchiere mediorientale ha prodotto conseguenze anche in Iraq, facendo scivolare il paese sotto l’influenza della componente interna maggioritaria sciita e in particolare dell’Iran, come clamorosamente abbiamo visto accadere 24 ore dopo il ritiro statunitense, quando il presidente Maliki ordinò l’arresto del vicepresidente sunnita Tariq al-Hashimi, costretto a fuggire dal paese e ancora in esilio. Oggi l’Iraq, alla stregua della Siria, è un paese in cui non vi è alcuna pacificazione tra sunniti e sciiti, tanto che a combattere in città simbolo come Fallujah contro l’esercito regolare sono sia Mustafa al-Mashhadani, eroe decorato dell’esercito di Saddam, sia Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico di formazione insurrezionale-terrorista. E ancora in Egitto dove nel 2011 la Casa Bianca abbandonò all’improvviso un alleato di lunghissimo corso come Hosni Mubarak, e al momento della deposizione (molto apprezzata a Riad) del presidente dei Fratelli musulmani, Morsi, ha tagliato tutti gli aiuti ai militari egiziani autori del rovesciamento. E ancora oggi, dopo otto mesi, l’ambasciata statunitense al Cairo è vacante e in un paese alleato da 40 anni e fondamentale per gli equilibri e la pacificazione tra i contendenti della regione. Segno che in Egitto gli Usa si stanno muovendo coi piedi di piombo, a metà strada tra i principi democratici e la realpolitik del nuovo potere politico del militare al Sisi.

La nuova strategia statunitense inoltre ha lasciato intatta (semmai aggravandola) anche la fondamentale trattativa tra Israele e Palestina, dove non si fanno passi importanti nei colloqui tra le parti, in incontri segreti gestiti esclusivamente dal Dipartimento di Stato Usa; la pace in Terrasanta da tutti e’ declamata come pietra angolare della pace in Medio Oriente, ma mai, come negli ultimi anni, e’ scomparsa dalle priorità della incerta diplomazia multipolare immobile ad osservare l’avanzare dei coloni nei Territori Occupati sotto la protezione del premier Netanyahu e nonostante la recente alleanza tra Hamas e Fatah che cerca di fermare la caduta di legittimità della leadership tra Ramallah e Gaza. La maggiore autonomia energetica da shale gas e da shale oil, e la minore dipendenza dal petrolio del Golfo Persico sta spingendo gli Usa, nel 2020 prima potenza energetica al mondo, a praticare in Medio Oriente una “egemonia riluttante” e a spostare le proprie attenzioni verso gli interessi geopolitici in Estremo Oriente, dove si produce metà della ricchezza mondiale (vedi il Trans-Pacific Partnership Agreement).

Non sappiamo che conseguenze avrà questa svolta nella strategia della Casa Bianca. Di certo c’è da pensare che l’Arabia Saudita non resterà a guardare mentre il suo potere nella regione si depotenzia e mentre l’alleato tradizionale apre al dialogo con il nemico storico, come dimostra per altro il recente feeling militare con la Francia o il Pakistan, fino alla scelta di non occupare uno dei seggi non permanenti nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, presentata come protesta contro la paralisi sulla crisi siriana, ma che lascia all’Arabia Saudita libertà di manovra per eventuali iniziative autonome. Il recente viaggio di Obama nei paesi del Golfo aveva proprio l’obiettivo di tranquillizzare Riad, ribadendo amicizia nonostante il feeling con l’Iran, ma la frattura sembra difficilmente sanabile, e lascia Riad alle prese coi suoi problemi, che sono il rischio del calo del prezzo del petrolio e la pressante richiesta interna di maggiore democrazia. Re Abdullah guida un paese senza Costituzione e senza Parlamento, in cui il potere passa da un familiare all’altro e con una popolazione tenuta a bada solo attraverso un assistenzialismo pagato con la rendita petrolifera.

Per questo Riad ha lavorato affinché le primavere arabe fallissero ed ha ostacolato in tutti i modi i Fratelli Musulmani e i movimenti democratici, e per questo ha smesso di inviare uomini a combattere in Siria, nel timore che quegli stessi uomini tornassero in patria per fare alla famiglia Saud quello che dovevano fare al regime di Assad. Parallelamente Riad teme che il ritorno sul mercato del petrolio iracheno e di quello iraniano abbassi ancora di più i prezzi. In definitiva, si delinea una sfida geoeconomica e geostrategica per il controllo dei destini di un area geografica che va dal Nordafrica fino al Pakistan. Questo spiega l’interventismo saudita in questi anni su scenari come Siria, Libano, Bahrein, Egitto e Iraq, dove Riad ha mandato denaro, armi e uomini. Né resterà fermo Israele, già non molto contento della riluttanza statunitense a giocare un ruolo in Medio Oriente e decisamente contrario a riconoscere all’Iran lo status di potenza regionale. Molto dipenderà anche dalla tenuta della nuova strategia della Casa Bianca, considerato che a Washington non tutti la pensano allo stesso modo di Obama, come si e’ visto tra quanti nel Congresso americano si fanno interpreti delle preoccupazioni israeliane, anche sfidando il veto di Obama sulle sanzioni all’Iran.

Va detto tuttavia che quella della Casa Bianca non sembra essere mera ritrosia a svolgere un ruolo egemone, ma pare profilarsi come una strategia precisa sebbene non più muscolare, ma ispirata alle tesi dell'”equilibrio di potenza”. Si direbbe che gli Usa abbiano deciso di contenere le potenze mondiali del suo livello (Cina e Russia), declassando e confinando le potenze regionali ai loro ruoli locali. Ma lasciare che le potenze regionali si scontrino tra loro per la supremazia non è privo di rischi, come stiamo vedendo con lo strisciante conflitto tra Iran e Arabia Saudita. Il paesaggio inoltre si complica per effetto delle divisioni all’interno dello stesso mondo sunnita, in particolare dalle parti del Golfo, ma anche all’interno dei vari paesi palcoscenico di rivolte e conflitti popolari come la Siria e l’Egitto. Non a caso le frizioni più forti tra Qatar e altri paesi del Golfo sono esplose a causa dell’ostilità saudita ai Fratelli Musulmani – appoggiati invece apertamente da Doha e Ankara – e del sostegno saudita alle forze militari, che hanno spodestato il governo di Mohamed Morsi. A questo proposito va segnalato il recente protagonismo del Qatar, che pure ha problemi analoghi all’Arabia Saudita dal punto di vista della tenuta del proprio assetto politico-istituzionale, ma e’ riuscita a compiere una transizione generazionale interna negli assetti di potere.

Se questo è il mutamento in atto, resta da chiedersi che ruolo possono e devono svolgere gli altri attori presenti sulla scena mondiale. A partire dall’Europa, decisamente scomparsa nella risoluzione dei conflitti lungo il Mare Nostrum e retoricamente ancorata a un soft power oramai scomparso negli ultimi anni di diatribe e cambiamenti mediorientali. Dopo la guerra di Bush in Iraq, dopo l’esplosione delle rivolte arabe e la crisi dell’Islam politico alla prova del governo, con l’emergere di una Al Qaeda 2.0 nelle pieghe dei confini nordafricani e mediorientali, oggi la sfida, che usa la Siria come macabro laboratorio, consiste nel definire un nuovo equilibrio nella sponda sud del Mediterraneo. La dottrina neocon statunitense voleva creare un ordine mediorientale senza dittature, senza terrorismo religioso e con la sottomissione dell’”Asse del Male” capeggiato dall’Iran con il suo piano atomico. L’esito di quella strategia è stato alla lunga paradossalmente inverso, come abbiamo visto in Iraq dove si sono dischiuse le fratture di natura identitaria e settaria. Ad agevolare questa deriva sono stati la virata diplomatica della nuova presidenza Usa verso scenari differenti (Asia in primis) e l’inconsistenza di una politica estera comune europea. Il disordine mediorientale che ne è scaturito ha prodotto schieramenti inconsueti dove la matrice religiosa, divenuta identificatrice di modelli politici, ha cementato nuove alleanze. Oggi, l’asse sciita è in competizione per il primato egemonico regionale contro il nuovo tentativo di unita’ sunnita guidato dai paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in prima fila.

La caduta delle dittature ha sdoganato la radice religiosa delle forze in campo, creando anche frizioni nello stesso blocco sunnita. Altri attori hanno deciso di far pesare la propria forza militare come la Turchia, tradita dall’UE, che insegue un proprio sogno di “neo-ottomanesimo”, senza remore ha sostenuto la rivolta in Siria, ha sponsorizzato i Fratelli Musulmani e sfidato l’asse sciita e la Russia. Quest’ultima poi, vista la sua presenza militare (base di Tartus in Siria) e il timore che sulla direttrice Grozny-Damasco crescano nuovi pericoli interni, vuole rivivere il ruolo anacronistico di potenza protettrice, e la difesa strenua della Crimea e delle sue posizioni sull’Ucraina resta legata anche alla proiezione sul Mediterraneo. Tornano alla memoria le più tragiche immagini della guerra civile libanese che pensavamo fossero archiviate. Al contrario quel conflitto lungo le fratture settarie e religiose si sta riproducendo in forme nuove, con belligeranti e relativi sponsor regionali che combattono per spostare a proprio vantaggio gli equilibri e per affermare alternative mediterranee nelle società post rivolte arabe. Uno dei fenomeni più drammatici che segnano la nuova epoca di questo confuso mondo in transizione è proprio la lacerazione del tessuto multietnico che per millenni ha caratterizzato il Mediterraneo. Una rottura che alimenta gli scenari di guerra. Il rischio lo aveva descritto anni fa Franco Cassano analizzando un “pluriverso mediterraneo… sopraffatto da strategie oceaniche – universalistiche e monoteistiche – che minacciano non solo la convivenza fra i popoli mediterranei, ma anche l’ordine e la pace internazionale”. Una previsione che oggi purtroppo sembra avverarsi.

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Enzo Amendola è capogruppo Pd nella commissione Esteri della Camera dei deputati