Il tallone d’Achille dell’algoritmo

Algoritmi di libertà (Donzelli), di Michele Mezza, è una miniera di idee sue e di stimoli a farsene di proprie, a partire dal titolo. Che è un ossimoro giacché l’algoritmo è previsione e prescrizione (se vai di qui fai così, se succede cosà vai colà, ad uso dell’automazione) mentre libertà – per come la vediamo – è la lotta dell’immaginazione per temperare la imprevedibilità delle cose entro la mappa precaria dei concetti. E dunque l’opposto del “prescrivibile”. Nel tiro alla fune di quell’ossimoro sta prevalendo da qualche decina d’anni l’algoritmo, perché ci fornisce cose utilissime (ricerca, consegne, socialità, funzioni distribuite come il telelavoro, la sanità a casa e senza medici, e via dematerializzando e disintermediando). Come utilissima era la Ford modello T degli anni venti, che usciva di qualsiasi colore purché nero dalla catena di montaggio, e cioè da un algoritmo di carne e acciaio. Certo, l’informatica è più leggera da gestire e permette varie misure di flessibilità, sicché i suoi algoritmi inseguono i comportamenti dei consumatori. Ma qualsiasi algoritmo è comunque figlio di progettisti che tirano l’acqua al mulino di chi li paga e quegli immateriali ingranaggi serrano tanto il magazziniere di Amazon quanto il suo cliente. Salvo che il primo, nuovo Chaplin, deve correre al ritmo prescritto mentre il secondo è convinto di vivere il Bengodi della libertà come l’americano medio che se la spassava sulla sua automobile verniciata di nero.

Tuttavia c’è una bella differenza fra ieri e oggi. Partecipe dell’algoritmo meccanico, Chaplin cercava di tenerlo a bada negoziando il tasso di sfruttamento, unito (perché uniti si vinceva) ai malcapitati come lui. In più, vedeva in fondo al tunnel la luce del socialismo (era un treno che arrivava, ma non lo sapeva). La immateriale catena informatica invece non la afferri né con le mani, né con gli occhi né col naso. Per questo e a lungo passivamente la subisci oppure ti innamori delle comodità che ti offre, a cui mai rinunceresti (cerco uno scendiletto su Amazon, et voilà). Resta nascosta ai sensi la prescrizione (quella tal variabile in quel tale segmento di algoritmo) che ti costringe a correre se dipendi da Bezos o Marchionne, o che ti frega sul prezzo se sei un loro cliente. Ne consegue che, per non passare per gonzi, dovremmo imparare ad aprire come una scatoletta di tonno la lista delle prescrizioni algoritmiche e negoziare a muso duro i passaggi che predeterminano un eccesso di sofferenza in chi lavora o un deficit di convenienza in chi compra. O che infinocchiano la democrazia 2.0 quando uno vale uno e un altro centomila.

Oltre a rivelarne e aggredirne gli snodi negoziabili, sarebbe poi interessante mirare al tallone d’Achille degli algoritmi, che possono annotare quello che fai, ad esempio dare un like, ma si arrestano sulla soglia del perché. Dove la questione – altro che algoritmi lineari – diventa culturale, con tanto di mappe concettuali tanto intricate quanto caduche. Altro che se vai lì fai così, se vai là fai cosà! Parafrasando un antico: i filosofi finora hanno subito il modello T degli algoritmi; ma il punto ora è cambiarli.