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Fermiamo il bullismo marinaresco di Salvini

La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di respingere il ricorso con cui la Sea-Watch chiedeva di poter sbarcare in un porto italiano le quarantadue persone imprigionate a bordo da dodici giorni non è una decisione nel merito. La Corte – che non è un organismo dell’Unione europea, ma del Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale diversa dalla Ue, di cui fanno parte anche stati come Russia, Ucraina, Turchia, e che decide sul rispetto dei diritti contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo – era chiamata a valutare la concessione di una misura eccezionale (in questo caso lo sbarco di tutti i passeggeri), consentita solo quando vi sia un rischio imminente di un danno irreparabile. Non si giudicava, quindi, della legittimità dell’azione del governo italiano o dei suoi obblighi di soccorso, ma solo della sussistenza dei presupposti per una misura ad interim.

Basta leggere il comunicato stampa della Corte: i giudici di Strasburgo hanno evidentemente ritenuto che non vi fosse un rischio di danno irreparabile per le persone a bordo della Sea-Watch – non sono in pericolo di vita – e ha invitato l’Italia a prestare assistenza, soprattutto nei confronti dei soggetti più vulnerabili. Nessun giudizio sul merito. Questo per dire che il pronunciamento della Cedu non è una vittoria di Salvini o della sua politica di scontro, né sarebbe stata una sua sconfitta se la Corte avesse deciso diversamente. In gioco ci sono vite e diritti umani, non una linea politica. E non si può attendere che sia una corte internazionale a risolvere l’ennesimo episodio di un conflitto costruito ad arte tra governo italiano e Ong presenti nel Mediterraneo.

Ancora una volta il governo ha scelto la prova di forza per mostrare il suo atteggiamento nei confronti dell’immigrazione. Una prova di forza tanto simbolica quanto inutile: i vantaggi di questo bullismo marinaresco si sono dimostrati inesistenti a livello europeo e l’Italia non ha ottenuto alcun tipo di impegno o collaborazione da parte degli altri paesi dell’Unione. La questione è umanitaria e politica, ma a questo punto non basta più richiamare al rispetto dei diritti umani e alla solidarietà, si deve andare alla radice del problema. La Sea-Watch ha salvato i migranti in difficoltà il 12 giugno e, secondo le indicazioni ricevute, li avrebbe dovuti riportare in Libia, in violazione del principio di non-refoulement (il divieto di rimandare i migranti verso paesi non sicuri) e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui respingimenti. Ma come ormai è riconosciuto da Nazioni Unite, Commissione europea, istituzioni internazionali e agenzie indipendenti la Libia non è un porto sicuro in cui riportare i migranti. Per le violenze nei lager, per l’instabilità del paese, e perché la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.

La questione è certamente umanitaria, mette in gioco solidarietà e morale, ma è soprattutto politica. È arrivato il momento di sottrarre le Ong a questo gioco al massacro e di interrompere questa guerra immorale tra il governo italiano e i salvataggi in mare, riportando la questione immigrazione alle sue dimensioni reali e di competenza dell’Unione europea, magari cominciando con il pretendere un impegno condiviso in quel tratto di mare, e la ripresa di una missione navale di salvataggio nel Mediterraneo, dove tutto comincia e dove ogni volta l’Europa si ritrova ad affondare.