Le vetrine di Detroit

Cara Left Wing,  se hai qualche minuto libero ho una piccola storia da raccontarti. Piccola, anche se divisa in due parti.

La storia inizia a Chicago. Ero lì per lavoro, partecipavo a una “conference and exhibition”: siccome mi guadagno da vivere facendo (e vendendo servizi di) marketing puoi immaginare che ciò di cui si parlava nei corridoi tra gli stand e ciò che veniva insegnato nei vari seminari che si succedevano al ritmo di uno ogni ora era un’unica, lunghissima e non sempre eccitante variazione sul tema “cosa vendere, come, a chi, a quale prezzo”. La parola più usata, detta e scritta zilioni di volte al giorno, era “market”: e però, alla fine del terzo giorno, ho realizzato che per la prima volta dopo molti anni non avevo sentito nemmeno una citazione del Cluetrain Manifesto: hai presente? Quello che diceva che i mercati sono conversazioni, esatto. Mi sono chiesto come mai, se perché ormai quelle amabili chiacchiere sono diventate parte tanto integrante della quotidianità degli acquisti e delle vendite da non farsi più notare, o se per il motivo esattamente opposto – e cioè che dopo tanto parlare (e quindi, se non altro per quella cosa dei grandi numeri, anche dopo tante fesserie dette senza controllo né vergogna) questa crisi eterna ci ha incupiti abbastanza da farci smorzare il cicaleccio e costringerci a dare attenzione alla sostanza, quando questa c’è.

Come è ovvio non mi sono dato una risposta ma mi sono tenuto la domanda fino a quando, un paio di giorni dopo, sono salito su un aereo e, al secondo tentativo, sono riuscito ad arrivare a Detroit (al secondo, perché il primo è fallito miseramente: pioveva dentro l’aereo. Sai, la crisi, i tagli sulla manutenzione, la concorrenza delle linee low cost, quelle cose lì). A Detroit inizia la seconda parte della storia, cara Left Wing. Era una delle città più importanti e ricche del mondo: la Motown, John Lee Hooker. E soprattutto Ford, Chrysler, General Motors tutte insieme, due milioni di persone affaccendate a costruire macchine che avrebbero portato in giro le pance sovrappeso dei loro connazionali e i sogni del resto del mondo. Ma le macchine, come qualsiasi altro prodotto, non basta saperle fare. Bisogna essere capaci di continuare a farle bene, e si deve sapere a chi venderle, e come, e a quale prezzo. Com’è andata lo sai anche tu: i giapponesi, i tedeschi, i coreani. Il mondo ha continuato a fabbricare e comprare automobili: Detroit no. Gli altri erano più bravi, più veloci, più economici, più fantasiosi – quei demoni dei giapponesi non avevano stabilimenti negli Stati Uniti e allora attrezzavano le navi per poter continuare gli assemblaggi durante il viaggio lungo l’oceano, così quando arrivavano in porto erano già pronti per i concessionari. Gli stabilimenti hanno chiuso, i fornitori dell’indotto pure, licenziamenti, disordini razziali, l’esodo di due terzi della popolazione e in qualche modo l’intera città ha tirato giù le serrande in attesa che qualcuno venisse a comprarsi in saldo quel che rimaneva.

Già, le serrande. Scusa Left Wing, mi sono distratto e stavo divagando, ma il secondo pezzo della storia riguarda proprio le serrande. Vicino a Detroit abitano dei miei cari amici, trasferitisi da quelle parti per motivi di lavoro; perché tra i compratori in saldo, come sai, ci sono anche gli italiani, e oggi in quel centinaio di chilometri quadrati del Michigan ne trovi migliaia: manager, tecnici specializzati, analisti, consulenti. C’è un albergo tra Birmingham e Auburn Hills, un Marriott, che se ti fermi in mezzo alla hall e resti in silenzio ad ascoltare ti pare di stare in Piemonte, altro che Wayne County. Qualcuno si ferma poche settimane, qualche mese; altri hanno contratti lunghi due, tre, quattro anni e allora ecco arrivare mogli e mariti e figli – una Little Italy atomizzata, niente ristoranti ma piattaforme di plant logistics. Una mattina la mia amica Sandra mi chiede se voglio vedere downtown Detroit, e così mezz’ora dopo siamo nel centro fisico di quella che era la terza o quarta città più ricca d’America. Le strade sono praticamente vuote, come se la settimana prima fosse scoppiata la bomba che uccide le persone e lascia intatte le cose. Mi guardo intorno, seguendo con gli occhi l’indice di Sandra che mi mostra il Canada sulla riva opposta del fiume e i magnifici grattacieli art-deco. Conto un numero impressionante di palazzi abbandonati, di vetri rotti, di insegne stinte come panni dimenticati su un davanzale. Passiamo davanti allo stadio del baseball, che è una delle poche attrazioni residue capaci di portare gente in città – e infatti i temporary store aprono solo quando giocano i Tigers o i Lions, perché magari la tua squadra vince e chissà, dopo una birra ti vien voglia di comprarti un paio di scarpe. Sandra mi porta su una delle grandi avenue che partono da qui e si stendono per quaranta, cinquanta chilometri verso ovest e verso nord. Woodward Avenue, si chiama: è grande, larga, con le aiuole addobbate per Halloween, una specie di Fifth Avenue, una sorta di Champs Elysées portata in riva ai grandi laghi: eppure vuota. Sì, cara Left Wing, le serrande. Adesso ci arrivo. Perché io e Sandra ci fermiamo a guardare le vetrine, proprio come si fa in una grande via commerciale. Ecco, le vetrine di downtown Detroit sono piene ma i negozi sono vuoti: e chiusi. Semplicemente perché non esistono più i clienti. Ripenso al Cluetrain Manifesto: i mercati sono conversazioni. Già, ma per conversare bisogna essere almeno in due, no? I mercati sono fatti di gente che produce, e gente che vende, e gente che compra. Togli questi ultimi e la conversazione diventa un soliloquio. Io e Sandra ci guardiamo in faccia un po’ attoniti, poi osserviamo meglio e capiamo. C’è un programma, non so dirti se pubblico o privato, che ha come “mission” il riportare in vita la città, mettendo in mostra “Detroit’s exciting present and promising future”. Si chiama Opportunity Detroit, una volta che ci fai caso poi trovi il logo dappertutto, sui taxi, dove Starbucks aprirà un nuovo punto vendita, nei giornali. E nel centro esatto di ogni singola vetrina che abbiamo davanti agli occhi; in tutti gli angoli in basso a destra di ciascuna di queste lastre di vetro che vorrebbero farci comprare se solo alle loro spalle ci fossero luci accese e banconi e persone alle quali dare i nostri dollari, c’è una scritta che ci informa che i prodotti esposti sono offerti dall’azienda X e dall’azienda Y e poi da quella Z, sono maglioni e scarpe e profumi messi in mostra non per essere acquistati ma per farci immaginare come potrebbe essere comprarli, come potrebbe essere Detroit se qualcuno decidesse di tornare a viverci invece di stare a Birmingham o a Troy. Sono vetrine finte, riempite per dare coraggio disegnando un futuro simile al passato remoto.

Dopo un po’ andiamo a riprendere la macchina – una macchina americana costruita in America da operai americani con soldi italiani presi in prestito dal governo americano – e torniamo a casa; dovremmo fare un po’ di spesa, dice Sandra, e io faccio sì con la testa, un po’ distratto perché sto pensando a quelle vetrine da raccontarti, cara Left Wing, cercando una morale che da qualche parte deve pur esserci, anche se io non la vedo.

Sergio Pilu

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È il mercato, bellezza. Che c’entra la morale?