L’anima e la sua plausibilità

Nel libro di Vito Mancuso, “L’anima e il suo destino”, si leggono, a proposito della resurrezione di Gesù, domande come queste: “Com’è possibile che tutta l’immensa vicenda umana dipenda da un singolo evento? Ma Dio, il Padre di tutti gli uomini, non avrebbe potuto trovare qualcosa di più chiaro e di più sicuro per aiutare i suoi figli […]? E soprattutto, non avrebbe potuto trovarlo prima, visto che la resurrezione è avvenuta solo duemila anni fa?”. Se poi fosse vero che l’azione salvifica di Dio scaturirebbe solo dal contatto con l’umanità di Cristo, non andrebbe l’incarnazione considerata per i più non una buona, ma una cattiva notizia, visto che “ha ristretto di moltissimo il raggio dell’azione salvifica”?
Un tempo, simili inopportune domande potevano al massimo essere scusate se poste da anime belle, ma sollevate gravemente da persone serie e adulte erano giudicate inescusabili (se la curiositas fu giudicata un peccato, ci sarà stato un motivo). Scusate o no che fossero, a quelle domande naturalmente non si dava risposta alcuna. La risposta era in mente Dei, e questo doveva bastare – e in genere bastava. A quelle domande Mancuso ha inteso invece rispondere, e questa è la prima ragione dello straordinario successo di vendite del libro. Così straordinario, che dopo mesi di silenzio, sia Civiltà Cattolica che l’Osservatore Romano hanno dovuto dedicargli, lo stesso giorno, una stroncatura in piena regola – l’una a firma dell’arcivescovo e teologo autorevolissimo Bruno Forte, l’altra del gesuita Corrado Marucci. Il quale deve avere temuto che per la teologia il XXI secolo stia preparando un orribile sorte pop, se ha sentito il dovere di manifestare tutto il suo premonitore dispiacere per il fatto che in un’opera teologica compaiano “titoli come «il deposito di zio Paperone» e «Vino e tortellini»”. In effetti, teologicamente parlando, non è il massimo.
Non sono il massimo, naturalmente, neppure le risposte di Mancuso, almeno dal punto di vista della dogmatica ufficiale. La salvezza – sostiene Mancuso – non dipende certo dalla morte e resurrezione di Gesù, o dalla fede che Gesù sia il figlio di Dio. E siccome sulla strada della salvezza personale c’è il macigno del peccato originale, bisognerà porre qualche domanda irriverente anche a quel riguardo e affermare: “Meno che mai l’intelligenza teologica è riuscita a rendere plausibile la logica morale sottesa all’istituzione di un legame diretto tra la colpa di un signore sconosciuto all’inizio della storia e il destino di tutti gli uomini dopo di lui”. Non c’è una logica moralmente plausibile: niente peccato originale, conclude plausibilmente Mancuso. La stroncatura di Bruno Forte tocca tuttavia proprio questo punto: per il cristianesimo, l’uomo non si salva da solo, ecco il significato di quel dogma. Togli il peccato originale, togli Paolo (l’inventore) e che tu lo voglia o no hai tolto il cristianesimo.
Mancuso, invece, considera che lo spirito più profondo del cristianesimo sia altrove. Non nei dogmi, che rigetta o riformula, e sicuramente non nella difesa di quei dogmi in base ad autorità e tradizione. Pochi impacci dogmatici, poche mediazioni sacramentali, poca visibilità della Chiesa, spirito di obbedienza alla verità piuttosto che alla gerarchia, il tutto condensato in una sola, splendida frase, nota agli uomini spirituali di ogni epoca e luogo: “La religione non salva”. E se non bastasse, segue l’elenco: “Né il sabato, né la domenica, né il Tempio di Gerusalemme, né la Basilica di San Pietro, né la circoncisione né il battesimo, né l’appartenenza a Israele né quella alla Chiesa «nuovo Israele», né il Talmud né il Messale salvano gli uomini”. Il fatto è che se tutte queste cose non salvano gli uomini, non si salvano neppure quelle cose (per gli uomini, si vedrà): che vi sia una logica che li giustifichi diviene altamente improbabile. Ma Mancuso non ha di queste preoccupazioni. Obiettargli che si discosta nel metodo o nei contenuti dal depositum fidei non ha molto senso. E’ quello che dichiara esplicitamente di voler fare, per spirito di verità, fin dai ringraziamenti che aprono il saggio.
Il problema è che, a seguirlo sin qui, occorre pure che una logica plausibile per l’anima e il suo destino la dia. La coscienza laica eletta a interlocutrice del libro è naturalmente ben contenta che si smuovano le acque in ambito teologico, dove di solito si rimane invece sempre troppo allineati e coperti, ma la logica, cioè la filosofia che deve sostenere la “teologia universale” di Mancuso, quella, quanto è plausibile?
Poco, in verità. Il fatto è che Mancuso si è accorto che nessuno può più seriamente pensare che il padre nostro è veramente nei cieli, o che noi si resusciti veramente con tutto il corpo dopo la morte, ma invece di accontentarsi di una comprensione meramente simbolica di quelle espressioni – cosa che effettivamente il credente si può concedere solo fino a un certo punto, perché la resurrezione significhi ancora concretamente qualcosa – s’è messo in cerca di una fisica che renda plausibile un destino immortale per l’anima. Una fisica, non una metafisica. Di qui il tentativo bello e nobile, per dirla con Platone, ma ingenuo, di presentare l’anima come una forma di energia, e persino, nella replica a Marucci, la formulazione dell’equazione E – M = A (che si legge: Energia meno Materia uguale Anima; nel libro è presente la variante: Uomo – Mondo = x). La quale formula chiama a una difficile decisione: se infatti ha ragione Mancuso, occorre rivedere l’equazione fondamentale di Einstein circa l’equivalenza fra massa ed energia, poiché ad Einstein non era affatto risultato che nell’ambito delle grandezze da lui considerate mancasse appunto qualcosa, cioè una x: l’anima (senza dire che rimane del tutto misteriosa l’unità di misura che consente a Mancuso di scrivere la sua equazione). Naturalmente, è sempre possibile prendere queste e altre formule per semplici modi di esprimersi, come metafore più o meno riuscite. Ma allora, metafora per metafora, perché non tenersi il buon vecchio cielo della scolastica?
Lo stesso discorso si potrebbe fare (ma non lo faremo) a proposito dell’evoluzionismo secondo un disegno intelligente proposto da Mancuso, la cui plausibilità scientifica è purtroppo assai bassa, e la cui fondazione razionale è largamente manchevole. Quanto poi alla sua intelligenza (del Disegno, dico), in mancanza di una giustificazione univoca e rigorosa degli onnipresenti concetti di “ordine” e “relazione”, essa sarebbe dimostrata semplicemente dal fatto che “noi siamo qui”. Costi quel che costi, si dovrebbe almeno aggiungere, e cioè a costo di tutto quel che c’è voluto di mezzo, per miliardi di anni, perché noi ci fossimo. I relativi problemi di teodicea non fanno arretrare Mancuso dalla pretesa di fare un altro passo e fondare anche l’etica sulla fisica, grazie a “una logica intrinseca di tipo impersonale”, ma fanno arretrare (e di parecchio) la coscienza laica, che vede bene il vecchio trucco consistente nel mettere all’inizio un principio personale (Dio), alla fine dell’evoluzione la personalità dell’uomo e di mezzo la logica impersonale chiamata a fare il lavoro sporco.
E così la coscienza laica rimane delusa. Una logica plausibile per l’anima e il suo destino nel libro non c’è. Una fisica speculativa difendibile dinanzi alla scienza non c’è. E un’etica ben fondata neppure. Alla fine il libro si rivela generoso, ma sbagliato. Il libro di un teologo fuori le mura vaticane (il che è pur sempre una buona notizia), che però restano lì, costruite con qualcosa di molto più saldo dell’impasto di fisica e teologia usato da Mancuso. E così la debolezza delle risposte infiacchisce anche la forza delle domande. Bisognerà attendere che in teologia qualcuno prenda di nuovo quelle domande e le lasci lì, senza risposta. Allora sì, forse, le mura tremeranno un po’.