L’analisi del vuoto

La discussione “ampia e approfondita” che il Partito democratico, dopo la sconfitta, ha finalmente deciso di avviare, dovrebbe partire da una premessa. Questa: sostenere che il risultato delle politiche è stato un successo o un mezzo successo, come continua a fare Walter Veltroni, non aiuta. Di sicuro non ha aiutato nel ballottaggio di Roma, dove un diverso atteggiamento forse non sarebbe stato sufficiente per vincere, ma certo avrebbe reso più facile suscitare in un elettorato genericamente di sinistra o di centrosinistra una reazione, una mobilitazione, un desiderio di riscossa. E il ballottaggio, come si sa, si gioca tutto sulla capacità di mobilitazione.
La surreale esultanza del segretario a fronte di una tra le più tremende sconfitte mai subite dalla sinistra nell’intera storia repubblicana – quella del 13 e 14 aprile – ha prodotto il paradosso di un grande partito nazionale che dopo avere commentato con soddisfazione il risultato delle politiche, solo due settimane dopo si mette a lutto per una sconfitta alle amministrative, sia pure nella capitale. Con lo stesso segretario che dopo avere dichiarato all’Unità, all’indomani delle politiche, che “la sfida riformista ha pagato”, all’indomani delle comunali di Roma parla con voce pesante di una grave sconfitta, che non solo lo riempie di profonda amarezza personale e politica, ma richiede pure una larga e approfondita discussione in tutto il partito, se non un congresso straordinario, addirittura.
E’ evidente che Veltroni non può non avvertire il peso di un voto che lo chiama in causa direttamente come sindaco uscente. Oggi, però, Veltroni è il segretario nazionale del Pd, non il capo della sua federazione romana. Il paradosso è che pur di perpetuare la finzione del successo ottenuto alle politiche, si deve ora fingere che la grande riflessione sulla sconfitta, tanto solennemente annunciata, sia dovuta al ballottaggio di Roma. I famosi elettori del Nord con i quali la sinistra sarebbe incapace di parlare, a questo punto, temiamo stacchino il telefono.
La premessa necessaria per qualsiasi discussione sul voto è che si parta dalla realtà. E la realtà è che le elezioni il Pd le ha perse di brutto. Non si risolverà il problema ripetendo ossessivamente che si è preso il 34 per cento – come continua a fare Veltroni, anche nell’ultima intervista a Vanity Fair – arrotondandosi il risultato dello 0,9. La fiera delle vanità è durata abbastanza.
Sommando i risultati di Pd, Sinistra Arcobaleno e dipietristi, si arriva al 40,5 per cento. Questo significa che sulla linea della “vocazione maggioritaria” teorizzata da Giorgio Tonini, per le forze di centrosinistra che da quindici anni contendono il governo del paese al centrodestra berlusconiano si è aperta oggi una vera e propria emergenza. C’è ancora bisogno di spiegarlo? Con un centrodestra tra il 50 e il 55 per cento dei consensi, non c’è riforma istituzionale o cambiamento della legge elettorale che tenga, la partita per l’alternanza è chiusa (solo a titolo di esempio: in un ipotetico ballottaggio, sommando i voti di Udc e Destra, una lista Pdl-Lega sarebbe oggi al 54,8). Figurarsi se il Pd si ostinasse sulla linea dell’autosufficienza, pretendendo di sfidare quel 55 per cento, per fortuna ancora solo potenziale, a partire dal suo 33 (drogato dal voto utile, per giunta) e dall’effimero 4 per cento dell’Italia dei Valori (alleato tra l’altro assai più difficilmente compatibile della Sinistra Arcobaleno con velleità di sfondamento al centro). Figurarsi poi se la linea del Pd sulle suddette riforme consistesse davvero, come pure è stato detto, nel tentativo di “istituzionalizzare” e di “perfezionare” il bel risultato uscito dalle urne il 14 aprile. Si sa che l’insuccesso può dare alla testa, ma qui saremmo persino oltre il delirio d’impotenza, la furia autolesionista, il cupio dissolvi. Saremmo al ridicolo.
Finita la campagna elettorale, occorre parlarsi chiaro e parlarsi seriamente. Il rischio che sta davanti a tutta la sinistra italiana è la possibilità che si consolidi un nuovo blocco di centrodestra che vada dalla Lega all’Udc, che già oggi supererebbe ampiamente la maggioranza assoluta. Non si tratta di fantascienza, perché quel blocco sociale e politico è lì dal 1994. E solo la strategia delle alleanze, l’azione di governo e la capacità di manovra del centrosinistra – proprio così: la capacità di manovra, che è l’essenza della lotta politica in una democrazia parlamentare – hanno evitato, almeno fino a oggi, che questi quindici anni fossero interamente e totalmente dominati dal berlusconismo.
Smaltita l’ubriacatura nuovista, che ha finito per risospingere il Pd, neanche tanto paradossalmente, nella posizione del Pci berlingueriano; riconosciuto l’esito sommamente paradossale di una strategia che ha portato a eleggere Massimo Calearo con i voti di Fausto Bertinotti, per poi attestarsi sulla linea dell’intransigenza morale e del rifiuto delle “manovre” e dei “tatticismi” (la vecchia linea del “non siamo noi che abbiamo sbagliato, sono gli elettori che non ci hanno capiti”, quindi non dobbiamo cambiare nulla); respinta in blocco tutta la chincaglieria dell’attuale “analisi del vuoto”, quella secondo cui il Pd avrebbe perso sulla sicurezza, sull’indulto, sull’immigrazione (non sarebbe bastata la cauta apertura di Veltroni alla castrazione chimica per i pedofili, forse avrebbe dovuto proporre direttamente la mutilazione chirurgica, chissà); messo un freno alla compulsiva ricerca di sempre nuovi capri espiatori – ieri il governo Prodi, oggi il vento di destra che soffia su tutta Europa, domani lo spirito del tempo, la crisi dei valori, il materialismo, il consumismo, il riscaldamento globale – chiuso insomma, e una volta per tutte, il concorso senza premi al più convincente luogo comune del 2008, la discussione che sta finalmente cominciando nel Partito democratico ha in realtà un solo punto all’ordine del giorno: abbandonare la retorica, per fare politica.