La compagnia del Bavaglino

Da molto tempo siamo abituati ad ascoltare i monologhi di Marco Travaglio ad Anno Zero, a leggerne quotidianamente le opinioni sull’Unità, a ritrovarlo da Fabio Fazio o altrove per presentare il suo nuovo libro, cosa che peraltro gli accade più o meno con la stessa frequenza con cui a Sarah Palin capita di presentare qualcuno dicendo: “Lui è il più piccolo”. Mai però avremmo potuto immaginare che al momento di dare il titolo alla sua ultima fatica – equamente divisa, almeno stavolta, con Peter Gomez e Marco Lillo – avrebbe scelto “Bavaglio”. Ma soprattutto, mai avremmo immaginato che tra i tanti bavagli che lo opprimono, quello che più di tutti lo soffoca, gli toglie il respiro e pure il sonno, fosse il bavaglio delle feste dell’Unità. Dove, a quanto pare, non lo invitano.
“Voi che alle feste ci potete entrare – ha detto Travaglio ai fan durante la presentazione romana del suo libro – salite sul palco, prendete la parola e ditelo ai rappresentanti che avete eletto: fate schifo, io mi vergogno di avervi eletto”. Beppe Grillo avrebbe espresso lo stesso concetto in modo molto più sintetico ed efficace, con una sola parola, ma Grillo quella sera non c’era e Travaglio, si sa, non ha il dono della sintesi. In compenso, nessuno come lui padroneggia l’arte dello slittamento semantico, affinata in anni e anni di corsivi scritti intingendo la penna nell’olio di ricino, ma quasi sempre a prova di querela. E così, il semplice fatto che i dirigenti del Pd si permettano di non invitarlo sul palco delle feste dell’Unità per farsi dire che fanno schifo – come per magia – si trasforma in una specie di messa al bando, quasi che lui alle feste dell’Unità, come chiunque altro e come coloro ai quali si rivolgeva durante la presentazione del suo libro, non ci potesse proprio entrare. Come se i generosi contributi (che evidentemente schifo non gli fanno) pagati da quegli stessi dirigenti del Pd al giornale fondato da Antonio Gramsci, da anni, non gli permettessero di pestarli quotidianamente a suo piacere.
In compenso, a presentare l’opera del pool Travaglio-Gomez-Lillo, sono accorsi gli amici di sempre, a cominciare da Paolo Flores d’Arcais e Sabina Guzzanti. Il primo ha annunciato la discesa in campo dei girotondini alle prossime elezioni, ovviamente ospitati nelle liste dipietriste – come indipendenti di destra, immaginiamo; la seconda, dopo avere oscurato Beppe Grillo in piazza Navona – che pure se l’era presa con il capo dello stato, e mica c’era andato leggero – prendendosela direttamente con il papa, questa volta si è accontentata di D’Alema, dandogli sostanzialmente del ladro. Perché, se può permettersi una tv, deve dire dove prende i soldi. “Di solito – ha spiegato infatti la Guzzanti – quando le aziende hanno un sacco di soldi di cui non si capisce bene la provenienza, per carità non sarà il caso di D’Alema, sono soldi rubati”. Che poi, per carità, non significa nulla, ma a noi pare un po’ il modo di ragionare di tutti gli amici di Travaglio: se non sei amico mio, almeno fino a prova contraria, sei un ladro (e se anche dovessi provare il contrario, resteresti comunque un farabutto).
Si tranquillizzino tutti, però. In Italia non c’è un nuovo regime, Silvio Berlusconi non è Benito Mussolini e loro stessi, con tutto il rispetto, non sono né Antonio Gramsci né Piero Calamandrei. Liberissimi di dire quello che pensano di D’Alema, Veltroni e tutto il Partito democratico. Travaglio dice che lo “fanno vomitare”, e per carità, nessuno pretende di imbavagliarlo. Stupisce però che un così strenuo combattente per la libertà pretenda di fare la rivoluzione senza muoversi da casa di papà, spesato e coccolato, e anzi protesti se poi papà non lo invita alla sua festa. E’ un vizio diffuso, ma stupisce lo stesso. Per il suo prossimo libro, e per il movimento dei suoi simpatici amici di Micromega, ci permettiamo di suggerire un titolo: “Bavaglino”.