Incastrati nel terminal

Immaginate di volare verso la città dei vostri sogni: all’atterraggio, un cataclisma politico nel vostro paese vi rende cittadini di nessuna nazione. In assenza di un documento valido per l’ingresso in un altro paese e impossibilitati a ottenerne uno a causa dei ferrei regolamenti sull’immigrazione, la vostra esistenza si blocca nel luogo esatto in cui vi trovate: il terminal dell’aereoporto. Un improbabile paradosso? No, un fatto di cronaca accaduto a Parigi che Steven Spielberg ha adattato per lo schermo (nello script, non a caso, anche Andrew “Truman Show” Niccol), costruendo una parabola agrodolce sul volto e sulla mimica di un ottimo Tom Hanks, impegnato qui a lavorare più con i silenzi e i movimenti del corpo che con le battute. Trasferita l’azione al JFK di New York, Spielberg incastra (legalmente) il suo protagonista nel terminal 67, obbligandolo a vivere giorno dopo giorno tra la scintillante area dello shopping turistico e le disadorne sale in ristrutturazione; muovendosi tra difficoltà lessicali, burocratiche, di rifornimento (cibo), di lavoro, di affetti: una vita in una scatola di cristallo, privo di mezzi proprio là dove, in pochi metri quadrati, la società occidentale offre tutti i suoi comfort, pure a buon prezzo. E questa deve essere la chiave del film che a una parte della critica è apparso come uno “Spielberg minore”, una commediola insipida, un non riuscito tentativo di rifare Frank Capra. Una domanda: qual è lo Spielberg maggiore? Se è quello di Schindler’s List, ebbene, non tutti i giorni si può produrre un capolavoro; se è quello, viceversa di E.T. e Lo squalo, stiamo parlando di un giovane talento impegnato a conquistare Hollywood e di due tra i maggiori incassi della storia del box-office, nulla di più. Per fortuna, Spielberg sa come mescolare impegno e necessità di cassa: i suoi ultimi lavori, da A.I. a Minority Report a The Terminal lo dimostrano. Magari addolcito con il suo incorreggibile vizio favolistico, ma il “messaggio” c’è. Ed è un messaggio che rassicura ben poco sui destini e sul presente della società occidentale (del resto, tra parentesi, verrebbe pure da chiedersi dove sia finito il “rapporto di minoranza” sull’Iraq). Sotto lo strato di caramello, The Terminal è tutt’altro che melenso. Il protagonista subisce la scortesia e la diffidenza di tutti, senza esclusione di etnia. A cominciare dall’odioso Dirigente, fanatico dell’ordine costituito: la sua peggiore nefandezza sarà impedire al nostro sfortunato eroe di racimolare monetine rimettendo a posto i carrelli – ovvero: impedirgli di avere un’occupazione che gli dia un reddito, che gli permetta di sfamarsi e vestirsi, che gli dia un ruolo e delle relazioni. Non così male, in fondo, per una commediola insipida.