Wojtyla e la razionalità del male

Cosa ha da dire oggi, in politicis, la cultura cristiano-cattolica (quella cultura cristiana cioè che riposa nella potente complexio oppositorum della Chiesa cattolica romana)? E se qualcosa ha da dire, siamo sicuri che sia proprio il caso di prenderlo per buono? Io la metterei così, nei termini i più seri possibili, perché a voler star dietro a Giovanardi e i manifesti contro lo spauracchio dell’eugenetica, Buttiglione e il disordine morale degli omosessuali (Dio mio, che disordine!), Socci e la vera storia del risorgimento italiano (evviva i Borboni?), ma anche Messori o Baget Bozzo, Tonini o Caffarra, non son sicuro che la discussione (e il nostro tempo, e la Chiesa stessa) ne guadagni. E, per esser seri, smettiamola pure con questa storia un po’ ipocrita che certe posizioni difese dalla Chiesa dovrebbero farle proprie tutti, credenti e non credenti, perché sono le posizioni di una morale naturale, razionale, universale (come se poi la filosofia non avesse qualche difficoltà a mettere questi aggettivi così disciplinatamente in fila): se così fosse la Chiesa erogherebbe poco più del servizio di un’agenzia sociale o di una scuola di formazione. Se d’altronde il cardinale Ratzinger scrive (come ha scritto) che la filosofia non può più procurare su un terreno puramente razionale i preambula fidei, sicché il pensiero credente pensa fin dall’inizio dentro lo spazio della rivelazione, ciò vale e non può non valere (com’è ovvio) tanto per la teologia quanto per l’antropologia. Insomma: tanto Dio quanto l’uomo si comprendono in verità solo alla luce dell’evento cristico, che non è precisamente naturale o razionale (per l’universalità, si vedrà). E dunque? E dunque aveva ragione Andrej Sinjavskij: “La Chiesa del Cristo non può essere un educantato per signorine per bene”. Quel che la cultura politica cattolica ha da dire, d’altronde l’ha detto, secondo tradizione, Papa Wojtyla, nel nuovo libro Memoria e identità. Quel che ha detto è che in politica, nella storia dell’uomo, il male è necessario. E se questo male si chiama per esempio (l’esempio è di Wojtyla) comunismo, è necessaria la morte di milioni di uomini, necessari sono i gulag e le deportazioni e le torture. Sia chiaro: la necessità con la quale gli orrori del XX secolo sono inseriti (e non possono non essere inseriti) in un disegno provvidenziale non rende meno dura e netta e inequivoca la condanna; cionondimeno, è vero pure che entro la “concretezza” della teologia cattolica della storia, per simili orrori deve comunque esserci un senso, e il male dovrà essere (o essere stato) “utile in tanto in quanto crea occasioni per il bene” (ancora il Papa). Considerazioni sulla più o meno simmetrica condanna, nel libro di Wojtyla, dei due totalitarismi, o sul significato recondito della maggior durata del comunismo rispetto al nazismo, trascurano l’essenziale, che brilla subito nel fuoco di una semplice domanda: quale altra figura o istituzione, all’infuori del Papa e della Chiesa di Roma, è capace oggi di portare, forte di una verità assoluta, una così gravosa responsabilità, e dire ad esempio (l’esempio stavolta è di Dostoevskij: I fratelli Karamazov) alla madre che ha perso il suo bambino: tuo figlio doveva morire perché ci fosse un’occasione per il bene di esercitarsi? E cosa significa ciò, se non che quel che quella madre rifiuta (rifiutando di entrare in un mondo nel quale suo figlio dovrà morire perché il bene trionfi) è la logica politica presa nel punto della sua massima intensità, e che politico in sommo grado è proprio quel potere che sa assumersi la responsabilità di mettere a morte un bambino? Se questo è ciò che fa la continuità della tradizione cattolica (e del plesso di idee politico-teologiche che ancora oggi, spesso ignare della loro origine, ci governano), si può provare però a rifiutarne l’elemento cardine, senza far la figura delle anime belle o degli illuministi ingenui. Se è vero infatti che la decisione politica circa la necessità del male suppone un fondamento e un valore assoluto per quella decisione, più forte di quella necessità, è vero pure il contrario, e cioè che prendere una simile decisione abbassa immediatamente a mero mezzo (a sacrificabile mezzo) tutto ciò che quel fine o valore non è, e dunque, lungi dal porre un argine al male, lo produce in maniera necessaria. Lo ha ben spiegato il filosofo americano John Dewey: porre fini dotati di un intrinseco valore assoluto, a prescindere dai mezzi (ivi compresa la vita umana, e per esempio – ma quest’ultimo esempio lo faccio io – l’embrione) è perfettamente complementare alla dottrina machiavellica del fine che giustifica i mezzi. E, purtroppo, finisce spesso col produrre gli stessi risultati. (Sul filo dell’ultimo esempio: niente impiego di embrioni congelati, niente diagnosi preimpianto, niente sperimentazione a futuro beneficio dei malati, e insomma niente di niente).