L’agenda sciita dal Bahrein all’Iraq

Il Medio Oriente continua a essere percorso dalle scosse generate dalla forza con la quale gli Usa hanno giocato sul tavolo regionale, con l’intervento in Iraq e le conseguenti elezioni del 30 gennaio, la carta sciita. Il 26 marzo, nel venerdì di Pasqua, decine di migliaia di sciiti hanno infatti percorso le vie della capitale del Bahrain, Manama, per chiedere riforme democratiche in una delle più grandi manifestazioni mai viste nel piccolo emirato del Golfo. Riforme capaci di dare finalmente la giusta rappresentanza a quegli sciiti che in Bahrain costituiscono il 75% della popolazione, dove però il potere è monopolio assoluto della famiglia regnante e del 25% di mussulmani sunniti che compongo il resto della popolazione dell’emirato.
Tali manifestazioni riecheggiano quelle di un anno fa, avvenute in occasione della festività sciita dell’Ashura e come protesta per l’intervento Usa a Kerbala e Najaf, città sante sciite. Anche oggi la richiesta è la stessa: gli sciiti, apparsi per la prima volta sugli schermi radar occidentali nel 1979 con la rivoluzione iraniana, hanno preso coscienza del loro peso nella regione, intellettuale e numerico. Anche per merito dell’intervento Usa in Iraq. Ma a dimostrazione che di un classico caso di “eterogenesi dei fini” si tratta, con questa forza non vogliono certo realizzare l’agenda politica americana. Agenda che al momento prevede peraltro solo una pars destruens – abbattere regimi dittatoriali possibili alleati del terrorismo, mettendo in discussione gli assetti attuali con la “carta sciita” in Iraq – e manca di una pars construens. Come sappiamo, nell’amministrazione Usa nessuno ha idea di come poi rimettere a posto i cocci, e in quale ordine. Gli sciiti hanno infatti una loro propria agenda. Un’agenda millenaria, che prescinde dall’occidente e dagli Usa, oggi tollerati come portatori di cambiamento ma certo non parte del loro disegno politico, che prevede invece di dare compiuta soggettività al “petroliostan” sciita. Uno scherzo della geografia infatti ha posto le maggiori riserve di petrolio proprio dove gli sciiti sono la maggioranza: Iran, la provincia orientale dell’Arabia Saudita, il Bahrain, il sud dell’Iraq. Nel 1981, quando gli Usa sostenevano i regimi dittatoriali sunniti e non erano esportatori di democrazia, per rispondere alla rinata minaccia sciita fu istituito il Consiglio di Cooperazione del Golfo, in uno sforzo di mutuo sostegno da parte degli stati dell’area. Oggi, riscoperchiato il vaso di Pandora dagli stessi Stati Uniti, una risposta tanto burocratica e così poco interdipendente non potrà bastare. Non in Iraq, dove gli sciiti dell’Ayatollah Sistani tollereranno gli Usa finché potranno continuare a far pesare la loro maggioranza numerica. Non nel Libano, dove Hizballah si è rivelato il vero centro di gravità dello stato. E non certo nel Golfo, dove prima o poi verrà al pettine, nella filigrana delle (sacrosante) richieste di democrazia e di osservanza della legge dei numeri, la più spinosa delle questioni: chi è il legittimo proprietario delle più grandi riserve di idrocarburi al mondo?