La morte di un uomo

Un uomo muore. Quest’uomo vuole però testimoniare lo spirito. Ma la vita dello spirito “non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa” (Hegel, Fenomenologia dello Spirito). Per tutto l’Occidente cristiano, lo spirito, cioè il senso della vita, è la vita dello spirito: è che lo spirito viva, che affronti la morte, l’ultimo nemico, la sopporti, e la vinca. Lo spirito è la vittoria sulla morte, e così è il senso della vita.
Un uomo muore. Ha la febbre. Un’infezione alle vie urinarie provoca uno shock settico, seguito da un collasso cardiaco. Chiede di non essere ricoverato. Alla sera, riceve l’estrema unzione. Le luci del suo appartamento si spengono intorno alle 23.30. Al mattino, verso le sei, concelebra la Messa, segue la liturgia dell’ora media, “o Dio vieni a salvarmi”, e chiede che gli vengano lette, come ogni venerdì, le 14 stazioni della via crucis. Si fa il segno della croce, a fatica. Rimane cosciente, ma il quadro clinico è ormai compromesso. Coloro che lo assistono pregano al suo capezzale. Le luci del suo appartamento rimangono accese. Poi le condizioni si aggravano: il respiro si fa superficiale, l’uomo comincia a perdere conoscenza. È l’agonia. Dura ancora una notte e un giorno. Si spegne alle 21.37 del due di aprile.
Un uomo muore. “Tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e di tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodiscono questi tre umani costumi, che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti” (Gian Battista Vico, Principi di scienza nuova). E’ perciò che il filosofo dice: uomo, umanità, viene da humare, che vuol dire seppellire. La ritualità della morte è la sua umanità.
Un uomo muore. Lo confortano i suoi assistenti, i suoi collaboratori, i medici. Ha la fibra forte, e si spegne lentamente. Forse qualcuno gli dà da bere, ma lui non ha più voce. E quando spira, la terra non trema, le rocce non si schiantano, le tombe non si aprono, e i corpi dei santi non escono dai sepolti, per apparire a molti. E quelli che vedono, o sentono, domandano se davvero gli uomini, i nati dalla terra, siano figli di Dio.
Un uomo muore. Non la morte dell’uomo, ma la Chiesa di cui è il principe è ora al culmine della sua visibilità. Poiché non l’essenza dell’uomo, che è custodita nello scrigno invisibile della sua morte, ma l’essenza della Chiesa romano-cattolica consiste in una “specifica superiorità formale nei confronti della materia umana” (Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica): questa, come nuda vita, è consegnata alla morte; quella indossa i paramenti della gloria. Grazie a Cristo, nella morte la Chiesa si rende massimamente visibile, la morte stessa rappresentabile, il passaggio pensabile.
Un uomo muore. Il mondo intero, che lo ha visto sofferente, malato, degente, vede ora le finestre del suo appartamento, vede le luci in quelle stanze prima accese, poi spente, vede altri uomini riuniti in preghiera, vede cardinali e alti prelati, vede la commozione dei Grandi della Terra, vede officiare, recitare, salmodiare, ma non vede quell’uomo morire. Cosa vede il mondo della morte di un uomo?
Un uomo muore. Forse nella morte ha potuto abbandonarsi fiducioso nelle mani del suo Signore. Ma ci sono uomini che muoiono rassegnati, e uomini che muoiono disperati. Ci sono uomini che vedono che stanno morendo, che in fondo alla loro anima sanno che stanno morendo, ma che non riescono lo stesso ad abituarsi a quest’idea (Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic). Forse guardano per questo in fondo alla morte di un altro uomo: per imparare a morire.
Un uomo muore. Forse è possibile fare che nelle parole di queste ore non vi sia solo la spettacolarizzazione mediatica di questa morte, ma questa morte stessa. Certo, i media non sono solo mezzi, modificano anche il contenuto che trasmettono: sono capaci di rappresentarlo, ma anche (contemporaneamente) di occultarlo dietro il simulacro iperreale della sua rappresentazione. Ma è infatti caratteristica essenziale dello spettacolo (non dello spettacolo della morte, che c’è sempre stato): che lo spettacolo parli di sé, e in questo modo occulti. Non lasciamoci perciò irretire da quanti, credendo di essere criticamente più avvertiti, si limitano a denunciare la logica dello spettacolo che tutto consuma: questa denuncia fa essa stessa parte (e parte essenziale) dello spettacolo. Domandiamo invece: un uomo, Karol Wojtyla, muore. Qual è il senso di questa morte, e della morte di un uomo?