Sin City e il mito della violenza

Dal primo giugno esce in Italia Sin City, diretto da Robert Rodriguez e Frank Miller, con la collaborazione di Quentin Tarantino in qualità di special guest director. Del fumetto omonimo da cui è tratto – opera di Frank Miller – abbiamo già parlato (vedi qui). Della presenza di Tarantino non c’è da stupirsi, e non solo per la lunga consuetudine con Rodriguez. La scelta di portare Sin City sullo schermo non poteva non vedere il padre della “cultura pulp” tra i suoi artefici. Quella scelta rappresenta infatti solo l’ultima interpretazione di un tema che nel cinema americano è tornato da anni in primo piano.
“L’America è nata nelle strade”, recitava il sottotitolo di Gangs of New York. La ridefinizione dell’identità americana attraverso il mito della violenza originaria – o se preferite la riscoperta di una tradizione che dai cowboy ai moderni giustizieri della notte Hollywood non ha mai abbandonato – nell’America di Bush è diventata sempre più forte, ma è cominciata prima. In chiave negativa e contestataria, era già tutta nel didascalico Natural Born Killers di Oliver Stone. Ma la si percepiva ancor più nettamente – e in chiave positiva – nel film dell’italoamericano Martin Scorsese, che individuava nei sanguinosi tumulti a sfondo razziale tra bande di immigrati la fondazione dell’America moderna. E poco dopo, nel Master and Commander dell’australiano Peter Weir, che nel pieno del furore antifrancese causato dalle tensioni internazionali sulla guerra in Iraq portava sullo schermo il romanzo di Patrick O’Brian. Un romanzo che narrava l’inseguimento di una nave americana da parte di una fregata britannica, ma che nel momento in cui arrivava sul grande schermo vedeva i cattivi tramutarsi da americani in francesi (e anche per questo allora parlammo del film come di un manifesto neocon). Una mutazione che permetteva al regista di rappresentare il suo eroe, il capitano Aubrey, mentre incitava i suoi uomini gridando a squarciagola: “Volete voi sentir risuonare la Marsigliese nelle nostre strade?”. Quel grido ci stupì allora nel cinema americano, che da Casablanca in avanti sulle note della Marsigliese aveva fatto marciare i suoi eroi in difesa della libertà, ma ci è tornato in mente molte volte dopo la seconda vittoria elettorale di Bush e le tante discussioni sull’influenza della riscoperta dei valori cristiani, delle comunità evangeliche e delle dure posizioni assunte in materia di diritti civili.
Eppure in quell’idea di violenza come levatrice della storia e dell’identità di un popolo c’è anche molto della tradizione rivoluzionaria della nazione americana. Perché è evidente che il fenomeno ha radici profonde e non può essere confuso con la sociologia spicciola di Natural Born Killers, che pure fu tra i primi a portare alla luce il tema della violenza gratuita, estrema e senza necessità di spiegazioni ideologiche o morali (discorso valido per i protagonisti ma non per il film, sia chiaro, che spiegava tutto con la violenza insita nel “sistema”). Un tema che negli ultimi anni tornava così a imporsi innanzi tutto per l’inusuale crudezza della sua rappresentazione, mentre parallelamente quella furia cieca e insensata – e che proprio nella sua insensatezza aveva il tratto distintivo da tutte le precedenti storie di cowboy e giustizieri della notte – trovava invece una precisa cornice ideologica che ne faceva, per l’appunto, la grande levatrice della storia e dell’identità americana. In questo fenomeno si può iscrivere a pieno titolo il Quentin Tarantino di Pulp Fiction e di Kill Bill, più ancora che per la centralità che la violenza ha nei suoi film, per la riscoperta di una tradizione fatta anche di Big Mac e fumetti splatter, di serie televisive di quart’ordine e di tutto ciò che un tempo si sarebbe chiamato cultura pop, ma che oggi è già diventato qualcos’altro (e non a caso, in assenza di altre definizioni, si è cominciato a chiamare cultura pulp). Un’operazione che non poteva non avere come principale alfiere quel John Travolta prima icona delle febbricitanti notti anni Ottanta e poi rapidamente dimenticato, al tempo stesso simbolo e beneficiario di quella riscoperta delle radici, insieme ironica e orgogliosa, dell’America che nelle strade è cresciuta. In fondo la celebre disquisizione sul Big Mac di Samuel Jackson, “Sai come lo chiamano il Big Mac a Parigi? Lo chiamano: le Big Mac”, cos’è se non l’ironica eppure orgogliosa rivendicazione di una peculiarissima forma di egemonia culturale? In quella surreale risposta, “le Big Mac”, non c’è anche l’irridente certificazione di una vittoria dei bassifondi persino nel tempio dell’alta cultura (e dell’alta cucina)? E non è forse questo uno splendido modo di celebrare il trionfo planetario dei simboli della propria identità, ma anche – all’interno – l’egemonia della tanto discussa “America profonda”, quella che gira armata e mangia cheeseburger, sulla sua stessa élite intellettuale? >