L’accento di Ricucci

L’ accento di Stefano Ricucci e il taglio di capelli di Danilo Coppola sono oggi al centro del dibattito che riguarda la proprietà del principale quotidiano nazionale, quel Corriere della sera cui il futuro marito di Anna Falchi sta dando la scalata, nonché gli assetti della Banca nazionale del lavoro e della Antonveneta, contese alle opa spagnole e olandesi dalla stessa disprezzata genia di immobiliaristi dall’oscuro passato. Proprio in questi giorni la vil razza dannata (e danarosa) ha fatto con grande scandalo il suo ingresso nelle prime file dello sceltissimo pubblico invitato ad ascoltare le considerazioni finali del Governatore Antonio Fazio. L’accento romano di Ricucci e la folta chioma di Coppola hanno decisamente turbato gli astanti, ma erano già da tempo al centro della discussione sul futuro del capitalismo italiano.
Può darsi, come molti e non disinteressati osservatori hanno spesso insinuato, che dietro di loro vi sia Silvio Berlusconi. Il primo degli immobiliaristi, il primo dei grandi capitalisti senza erre moscia, il primo e il più abile dei parvenu potrebbe avere aiutato la scalata dei giovani capelloni, pronto a rilevare dall’interno del patto di sindacato Rcs – tramite Salvatore Ligresti – le quote accumulate da Ricucci. Può darsi che in palio vi sia davvero il controllo del Corriere da parte di chi già controlla la televisione pubblica e privata, con grave pregiudizio della campagna elettorale, del pluralismo e della democrazia. Ma pluralismo e democrazia sono valori che mal si conciliano con gli accenti lombrosiani di una autonominata nobiltà di sangue, supposta erede dell’antico capitalismo familiare italiano, ora alle prese con quelle logiche di mercato elogiate al mattino e sapientemente aggirate la sera. Le veementi accuse contro governo e opposizione per la loro mancanza di coraggio nel difendere il mercato e promuovere quelle riforme liberali di cui il paese avrebbe tanto bisogno mal si conciliano con i patti di sindacato e le cordate dietro le quali gli stessi accusatori sono trincerati. Le insinuazioni sugli oscuri bilanci e le misteriose fortune dei nuovi arrivati, così come le osservazioni sulla loro mancanza di stile e buone maniere, non riescono a nascondere l’unica vera fonte di tante preoccupazioni: i nuovi venuti hanno le tasche piene, il comportamento di molti lascia pensare che altri le abbiano invece drammaticamente vuote, riempite soltanto di codicilli elaborati allo scopo di ostacolare il normale funzionamento della logica di mercato. Uno spettacolo che non si concilia affatto con le tante proteste contro la burocrazia statale e i celebri lacci e lacciuoli imposti dalla politica ai nostri audaci imprenditori.
Noi non sappiamo quale sia l’origine delle fortune dei nuovi venuti, non sappiamo se siano davvero burattini nelle mani di altri, non sappiamo se Stefano Ricucci abbia fatto il passo più lungo della gamba e sia destinato a rompersele entrambe o se invece le abbia ben piantate nel terreno di scontro su cui si decideranno i futuri assetti di potere nella finanza e nell’economia italiana. Se il passato di questi newcomers nascondesse segreti inconfessabili, saremmo lieti che venissero alla luce. Se le loro operazioni presenti e future rappresentassero una minaccia per il paese, saremmo lieti che venissero sventate. Ma nella battaglia in difesa dell’erre moscia e delle bianche parrucche di una nobiltà decaduta – indifferente a ogni considerazione di mercato, di principio e di interesse generale – proprio non ci sentiamo di arruolarci. Diciamo pure per una questione di stile.