Perché rapiscono i cooperanti

Clementina Cantoni è al ventunesimo giorno di prigionia. Conosciamo il nome del capo della banda che l’ha rapita, la madre detenuta svolge il ruolo di mediatrice. Conosciamo il luogo della prigionia e le richieste avanzate per la liberazione dell’ostaggio. Eppure i rapitori riescono a tenere sotto scacco due governi, italiano e afgano, con i relativi servizi investigativi e di intelligence.
Clementina è stata rapita il 16 maggio, nel centro di Kabul, poco dopo le otto di sera, mentre stava andando in auto a mangiare in un ristorante della città. Insieme a lei c’erano l’autista afgano e un’amica canadese. In questo dettaglio è tutto illustrato il genoma del rapimento. Hanno rapito Clementina e non la sua amica canadese. Non è quindi un’azione di segno politico, il rapimento di entrambe le donne sarebbe stato molto più efficace in questo senso. Aver preso un solo ostaggio significa voler tenere un profilo più basso. Segnala la previsione organizzativa di trattenere l’ostaggio in prigionia e di restituirlo dopo contropartita. E’ un rapimento di natura economica a scopo di estorsione. Ma proprio per questo motivo hanno scelto Clementina, una cittadina italiana, e non la sua amica canadese. I rapitori sono orientati dall’aspettativa che il Governo italiano, in misura maggiore di altri governi, sarà disposto a pagare un riscatto.
Anche se il caso ricorda più le azioni dell’anonima sequestri che non un’operazione a carattere geopolitico, resta pur sempre che quello della Cantoni si aggiunge alla lunga lista dei rapimenti di operatori umanitari. All’interno del mondo dell’aiuto umanitario è stata avanzata al momento una sola risposta, cui hanno aderito tutti coloro che sono intervenuti: è stato violato lo “spazio” umanitario. Tutti pretendono di essere “umanitari”. Gli eserciti sono di pace, occupano per liberare, non fanno più guerre ma solo azioni di peacekeeping. Uccidono e distruggono solo quando è inevitabile. Appena possono aprono ospedali e ricostruiscono scuole. I governi pretendono di usare l’aiuto umanitario a scopi politici. Lo orientano direttamente – vedi Protezione Civile e Croce Rossa italiane – e indirettamente, finanziando le proposte delle organizzazioni non governative solo quando siano sinergiche alle loro politiche internazionali.
Secondo questa logica, la popolazione irachena, e presumibilmente i dirigenti delle organizzazioni politiche paramilitari e terroristiche locali, non sarebbero più in grado di distinguere tra tutti questi diversi attori che dichiarano di agire in nome di principi umanitari. Non ci sarebbero più barriere tra civili e militari. Di conseguenza, volendo punire un governo, lo si attacca dove è più facile. Gli operatori delle ong sono obiettivi semplici, non sono armati e non ricorrono ai servizi di sicurezza professionali, perché è contro i loro stessi principi.
Gli operatori umanitari sarebbero diventati pertanto vittime dei loro stessi governi, che per raggiungere obiettivi politico-militari hanno invaso lo spazio umanitario, che così ha perso la sua neutralità. L’aiuto umanitario non è più imparziale, non è più guidato dall’unico ed esclusivo principio di soccorrere chi è in condizione di bisogno. E’ diventato un altro strumento a disposizione delle politiche internazionali dei governi. I più decisi sostenitori di questa tesi giungono alla conclusione che laddove non esista più lo spazio umanitario, le organizzazioni umanitarie debbano astenersi dall’intervenire. Di conseguenza chiedono a tutte le ong di abbandonare immediatamente paesi quali l’Iraq e l’Afghanistan. Questa analisi ha delle premesse discutibili e delle conclusioni paradossali.
Si dice che le forze occupanti hanno il dovere, secondo le convenzioni di Ginevra, di garantire la conduzione amministrativa del paese. Devono cioè assicurare il normale svolgersi della vita civile: scuole, ospedali, viabilità e trasporti, acqua, cibo, carburanti, energia elettrica. Se un esercito ricostruisce una scuola non sta facendo un’azione umanitaria, ma adempie a un suo dovere formale di occupante, previsto dalle convenzioni internazionali. Questo è assolutamente corretto da un punto di vista formale, ma è un argomento inconsistente dal punto di vista sostanziale. Non si accusano gli eserciti di essere indebitamente umanitari, anzi si sottolinea che questo è un loro dovere, ma si pretende che non pubblicizzino queste azioni come umanitarie. La confusione tra eserciti di “pace” e operatori umanitari c’è. Ma è nell’opinione pubblica e nei governi dei paesi occidentali, non nelle popolazioni in stato di bisogno. Chi nel mondo delle ong si accontenta della spiegazione invasione-dello-spazio-umanitario, vuole fuggire l’evidenza dei fatti. In Iraq come in Afghanistan, cioè in paesi dove sono attive organizzazioni armate che perseguono visioni della società improntate al fondamentalismo islamico, si rapiscono gli operatori umanitari perché sono tali.
Agli occhi di queste organizzazioni paramilitari e/o terroristiche, gli operatori umanitari sono il più subdolo dei nemici, sono il diavolo sotto mentite spoglie. Prima conquistano la fiducia delle popolazioni con opere di bene, poi surrettiziamente le convertono. Non al cristianesimo, ma a una fede ben peggiore: alla libertà di pensiero. E’ la loro presenza fisica, la testimonianza del loro esistere, a essere rivoluzionaria. Dove la donna è obbligata alla tutela di un uomo per tutta la vita, prima il padre e poi il marito, in loro mancanza un fratello, uno zio, o addirittura un figlio, la presenza di una donna occidentale con pari diritti dell’uomo può essere devastante sugli equilibri sociali. Queste donne sono a volte insopportabilmente emancipate anche per degli uomini italiani. Il giorno dopo il rapimento delle Simone, il direttore di Libero scrisse parlando di due donne adulte di 28 anni: “Se fossi stato loro padre gli avrei dato due ceffoni, altro che Iraq”. Sottolineando quindi che un padre avrebbe sia il diritto di schiaffeggiare le figlie che quello di decidere per loro, indipendentemente dall’età delle stesse. Gli operatori umanitari, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, sono un virus della cultura occidentale, ed è a questo contagio che i rapitori si oppongono. Anche quando le motivazioni di questi ultimi sono a prevalente carattere economico, scelgono le loro vittime in considerazione del minor dissenso sociale che la loro azione può provocare. L’unica manifestazione pubblica a Kabul, contro il rapimento di Clementina Cantoni, è stata quella che la Bbc ha descritto come la “coraggiosa protesta” di cento donne vedove di guerra. Nessun capofamiglia e nessun capotribù ha fatto dichiarazioni, riunioni o manifestazioni sul tema. E’ comprensibile che gli operatori umanitari vengano attaccati da organizzazioni fondamentaliste islamiche nemiche della cultura occidentale. Così come non è una sorpresa, in fondo, che occidentali no-global chiedano agli stessi operatori umanitari di ritirarsi.