Non bussare alla mia porta

Un cowboy al galoppo nella Monument Valley, col sole al tramonto e la notte che si avvicina. Ma un cowboy che in realtà non è un vero cowboy, bensì un attempato attore di western che non ne può più della sua vita da star, tutta sesso e droga, e scappa dal set con gli abiti di scena e il cavallo d’ordinanza. Inizia così “Non bussare alla mia porta”, ultimo film “americano” di Wim Wenders. Il regista ha infatti annunciato che con il prossimo tornerà nella sua Europa. Per accomiatarsi ha scelto di tornare all’antico: nel film non c’è nulla dell’America paranoica e ansiosa de “La terra dell’abbondanza” mentre c’è molto dell’ormai lontano (e splendido) “Paris, Texas”. Soprattutto c’è Sam Shepard, che oltre a offrire il volto al protagonista, come allora con Wenders ha scritto la sceneggiatura. E come allora c’è la difficoltà dei rapporti, la voglia di normalità, il desiderio di ricominciare. Howard Spence (Shepard) è un uomo che fugge da un presente ormai marcio e lo fa cercando rifugio nel passato: riavvolge il nastro della sua vita fermandolo in un punto a caso e prova a ripartire da lì. Si rifugia dalla madre con cui non ha avuto contatti per trent’anni, ma appena il tempo per decidere di andare in cerca di Doreen, fugace amore di gioventù.
Di lei conserva poco più che un vago ricordo e una foto del bar in cui la ragazza faceva la cameriera. Così Howard arriva a Butte, sperduta cittadina del Montana, dove davvero il tempo sembra essersi fermato. Tra luci, colori e atmosfere che richiamano esplicitamente i quadri di Hopper. Qui l’attore in cerca di un nuovo inizio scopre che ricominciare forse non è impossibile, ma far finta che il tempo non sia passato davvero non si può: “I film sono meglio della vita”, dice una fanciulla. Verrebbe da chiedersi se non sia un cambio di prospettiva rispetto al celebre “la vita è a colori ma il bianco e nero è più reale”.
Wenders ha fatto molti film, forse troppi. Ma anche in quelli meno riusciti c’è sempre qualcosa – un’immagine, una scena, un volto – che è difficile dimenticare. “Non bussare alla mia porta” racchiude molte di quelle cose: i lunghi silenzi; l’America bella e triste; le donne splendide e comprensive; la fatica dei sentimenti; l’ironia grottesca di alcune situazioni. E una carrellata di personaggi dolenti e dolci: la madre (Eva Marie Saint, quella di “Fronte del porto”) che vede riapparire il figlio dopo trent’anni senza scomporsi più di tanto; Doreen, interpretata da una perfetta Jessica Lange; Sky, una ragazza misteriosa e angelica che gira portando con sé l’urna con le ceneri della madre; un grottesco agente segreto (Tim Roth) che sembra uscito da un film di David Lynch. Ma soprattutto, in “Non bussare alla mia porta” c’è quel che rende grande Wenders, ovvero la sua capacità di raccontare e di farlo con le immagini e con la musica, regalando una serie di indimenticabili e silenziosi momenti di grande cinema.