Molto forte, incredibilmente vicino

Quella sera, a letto, ho inventato uno scarico speciale da mettere sotto tutti i cuscini di New York, collegato al laghetto del Central Park. Ogni volta che qualcuno si addormentava piangendo, tutte le lacrime sarebbero finite nello stesso posto e poi al mattino al bollettino meteo avrebbero detto se il livello delle acque del Laghetto delle Lacrime era salito o sceso, così la gente poteva sapere se le scarpe di New York erano pesanti. E quando succedeva qualcosa di veramente terribile – tipo una bomba atomica, o almeno un attacco con armi biologiche – avrebbero suonato una sirena fortissima per dire a tutti di andare nel Central Park e mettere dei sacchi di sabbia attorno al laghetto”.
Oskar è un ragazzino di nove anni che vive a New York e – a modo suo – è un genio. Passa le giornate a costruire mentalmente improbabili invenzioni e a scrivere lettere a celebri scienziati, chiedendo il permesso di diventare un loro pupillo. E’ lui il protagonista di Molto forte, incredibilmente vicino, secondo romanzo di Jonathan Safran Foer, scrittore americano appena ventottenne. Accanto a Oskar compaiono, in una complessa architettura narrativa, altre storie dolorose e struggenti che ruotano intorno alla sua famiglia.
Il padre è morto il “giorno più brutto”, nell’attentato alle Torri Gemelle, e di quel dolore nessuno riesce davvero a liberarsi. Alcuni tentano di rimuoverlo, altri di superarlo. Oskar si sforza di essere felice, ma non ci riesce. E le sue scarpe diventano ogni giorno “più pesanti”. Poi per caso trova nel ripostiglio di suo padre una chiave nascosta e decide di scovare la serratura corrispondente, iniziando una disperata ricerca che sembra il ripetersi delle complicatissime cacce al tesoro che proprio suo padre organizzava per lui. Nel corso delle sue ricerche Oskar scopre New York, i suoi quartieri, i suoi abitanti: una città in cui sembra dominare il vuoto, quello fisico di Ground Zero (ma anche della bara senza corpo del padre di Oskar) e quello assai più doloroso della solitudine dei tanti personaggi che il ragazzino incontra. Un dolore che permea l’intera narrazione e che prende sembianze ogni volta diverse: la signora che da quando ha perso il marito vive in un ripostiglio sopra l’Empire State Building e non vuole scendere; il misterioso personaggio che abita nello stesso palazzo di Oskar e non esce mai di casa; i nonni, con le loro regole e la loro incapacità di essere felici insieme.
Nel dolore dei suoi personaggi, allo stesso tempo intimo e corale, e nel loro tentativo di andare comunque avanti c’è l’America del dopo 11 Settembre, con le sue ansie e le sue paranoie, con le sue tragedie e le sue contraddizioni. Jonathan Safran Foer la racconta meravigliosamente, con uno stile ricercato ai limiti del manierismo, ma trasmettendo un dolore vero, coinvolgente. Un dolore che a volte ha l’aspetto tenue di un’increspatura nella normalità apparente della vita di Oskar, altre volte è più evidente, quasi esibito, come nel caso dell’uomo che poco a poco ha perso le sue parole per un dolore che viene dalla seconda guerra mondiale. Ed è proprio il ricordo del bombardamento di Dresda a collegare idealmente questo libro a Ogni cosa è illuminata, primo celebratissimo romanzo di Foer in cui riecheggiava la tragedia dell’Olocausto. Certo stupisce che uno scrittore nemmeno trentenne sappia raccontare così bene, attraverso le sofferenze individuali, le grandi tragedie dei nostri tempi. Ma forse ha ragione lui, e non c’è davvero nulla di strano. “Nessuno chiede alla Rowling perché continui a scrivere libri pieni di maghi – dice Foer – mentre tutti chiedono a me perché scriva sempre di cose dolorose. Ma nella vita i maghi non esistono, il dolore sì”.