Tremonti e i problemi della politica

Molti dei cinquantamila no global che sabato hanno sfilato a Roma contro la direttiva Bolkestein, con tutta probabilità, domenica erano tra i milioni di elettori del centrosinistra che hanno votato alle primarie. E dagli altermondialisti cattolici della Rete Lilliput ai sindacalisti della Cgil, si può presumere che una parte non irrilevante di essi abbia votato per Romano Prodi, presidente di quella Commissione europea che ha varato la direttiva sulla concorrenza. Si può scommettere, invece, che nessuno dei manifestanti di sabato avesse in tasca una copia dell’ultimo libro di Giulio Tremonti. Eppure è proprio in quel breve saggio dal titolo vagamente apocalittico, Rischi fatali – assai più che nel progetto dell’Unione distribuito domenica ai seggi – che avrebbero trovato il loro autentico manifesto. Perché Giulio Tremonti è il più acuto e intelligente rappresentante di una nuova cultura politica che dagli anni novanta a oggi si è sviluppata tanto nei centri sociali delle grandi periferie urbane dell’Occidente (così come nelle sue periferie intellettuali, all’interno dei suoi quartieri residenziali colti e annoiati) quanto nel piccolo mondo antico delle nuove rivolte contadine contro l’Unione europea. Le rivolte guidate da José Bové in difesa dei produttori di formaggio della Francia meridionale e quelle condotte dalla Lega in difesa degli allevatori del nord-est vittime delle “quote latte”.
L’attacco frontale all’ideologia “mercatista” dell’Unione europea svolto dall’attuale vicepresidente del Consiglio potrebbe degnamente figurare in un volantino dei Disobbedienti o di Attac. “Il mercato unico postulava per esistere un tipo di pensiero nuovo – scrive Tremonti – un tipo di pensiero globale uniforme: il pensiero unico. E proprio questa doveva essere la culla dell’uomo nuovo. La culla del consumatore globale ideale. L’«uomo a taglia unica»”. E poche pagine dopo: “Il Pantheon del nuovo rito mondiale si chiama Wto… Il Wto non è solo il comitato d’affari delle multinazionali. E’ stato pensato come la centrale di sviluppo del mondo. Della «modernizzazione» del mondo, prodotta dal mercato”. E in questi termini “l’Europa non è stata solo socio fondatore del Wto. E’ stata anche il suo incubatore ideologico”. La bolsa parafrasi di Marx si ripete ancora all’inizio del sesto capitolo: “L’Europa è diventata il comitato d’affari di una ideologia unica, ispirata e custodita da una elite politicamente corretta”. Qui però dal gergo da sinistra extra-parlamentare si passa rapidamente all’arcadia che sempre popola i rimpianti dei reazionari: “Al principio, il latte era certo cosa più «calda» di quanto lo sia ora la Banca centrale europea. Negli anni cinquanta, l’agricoltura era ancora una cosa politicamente più viva di quanto sia ora la direttiva Bolkestein. Ora invece tutto è intollerante e freddo”. L’agricoltura e il latte. José Bové e gli allevatori del Nord-est. Luca Casarini e Roberto Calderoli.
In una simile e non nuova costruzione ideologica si coglie però una vistosa lacuna: gli Stati Uniti. Se l’Europa è la costruzione totalitaria di elite prive ormai di ogni legame etico-politico – avrebbe detto Gramsci – con il proprio popolo (nella versione di sinistra), con la propria nazione e con la propria tradizione (nella versione di destra), da dove è venuto l’impulso che le ha così potentemente sradicate, di chi sarebbero dunque gli agenti, da chi prenderebbero gli ordini una volta spezzato il vincolo democratico e nazionale? La vulgata no global, tanto nella sua versione di sinistra quanto nella sua versione di destra, non esita a rispondere a questa domanda: gli Usa. E la risposta ha una sua indubbia coerenza. Quello che lo stesso Tremonti descrive non è altro che il processo di americanizzazione dell’Occidente, che il vicepresidente del Consiglio non può però chiamare con il suo nome. Tremonti si rifugia pertanto nei distinguo. “Nulla da obiettare contro il libero mercato, naturalmente” ripete a più riprese. Il problema è il modo, il quanto, il quando. Distinzioni, dati e cifre spesso non privi di una loro perspicuità, ma risibili giustificazioni di fronte alla veemenza dei passi sopracitati. In questo grumo di contraddizioni si innestano dunque le note invettive contro la cecità europea di fronte alla concorrenza cinese e l’invocazione del protezionismo. Qui si innesta anche l’aperto elogio al fronte del no alla Costituzione europea, vittorioso in Francia e in Olanda. Ancora una volta insieme ai Casarini e ai Bertinotti, ai Laurent Fabius e ai Roberto Calderoli di tutta Europa. Così Giulio Tremonti scende idealmente in piazza contro la direttiva Bolkestein e contro l’idraulico polacco, senza il minimo imbarazzo, da ministro dell’Economia di quel governo che si vorrebbe erede della Thatcher e amico di George W. Bush, che la democrazia occidentale vorrebbe addirittura esportare, persino in Medio Oriente. Nulla dice in proposito Tremonti, e si capisce perché. Ma ancora una volta, le premesse ideologiche ci sono tutte. L’ultimo passo, l’elogio della resistenza irachena, il ministro lo lascia alla più coerente propaganda no global.
Questo grumo di contraddizioni non divide dunque soltanto il centrosinistra italiano. Esso attraversa anche il centrodestra, così come tutte le forze politiche europee. E allo stesso modo in cui la vulgata no global e antieuropeista fonde al suo interno letture di destra e di sinistra, così i suoi avversari potrebbero trovare i propri punti di riferimento su entrambi i fronti. Nel disprezzo delle masse alla Ortega y Gasset, nel dispotismo illuminato da governo dei tecnici, nel cieco dogmatismo dell’ortodossia liberista. Oppure, dall’altra parte, nel tentativo di ricostituire una base di consenso e un principio democratico anche nella durezza delle scelte che si annunciano, lungo una strada sempre esposta agli attacchi dei reazionari e degli utopisti di ogni colore, che è poi – come sempre – l’unica strada possibile per una sinistra riformista.