Le uova del drago

Nel romanzo di Pietrangelo Buttafuoco, Le uova del drago (Mondadori), c’è una scena magnifica nella quale salta fuori persino Franco Franchi. In un vero e proprio cameo, il celebre comico siciliano viene fatto comparire a pagina 256, a poco più di venti dalla fine, citato con il suo vero nome di Franco Benenato. Viene raffigurato bambino, intento a imitare e sbertucciare il Führer ancora vivo e combattente (è il gennaio del 1945) per lo spasso della gente che gli sta intorno nel mezzo di uno sfollamento da Trapani a Levanzo, nella Sicilia liberata dagli angloamericani.
La scena spiega anche le ragioni di un fatto sorprendente: uno scrittore filofascista scrive un romanzo immedesimandosi nelle ragioni degli sconfitti della storia (i fascisti, appunto, e i nazisti nelle loro molteplici varianti, dai consueti teutonici ai musulmani agli ordini del Gran Muftì di Gerusalemme), e quasi tutti ne parlano bene. Cose che succedono, almeno in Italia. Certamente, Le uova del drago, è un libro ben scritto, ma è anche ideologicamente disturbante per il comune senso della correttezza politica, nel senso che è monoliticamente dalla parte di tutti coloro i quali hanno avuto ragioni (buone o meno buone) per preferire l’avventurismo mussoliniano, con la sua vigorosa azione antimafia, all’imperio dell’oro demo-pluto-giudaico, sostenuto dalla lunga mano di Lucky Luciano. La mimesi dell’autore col punto di vista dei suoi beniamini è totale. Sorprende, insomma, che un po’ tutti, anche da sinistra, abbiano salutato il libro di Buttafuoco come qualcosa di necessario, addirittura, quasi a significare che se la letteratura è l’elaborazione e la perlustrazione di mondi possibili, quel mondo rimaneva fino a oggi inesplorato, e una mappa e un resoconto di viaggio ci volevano.
Buttafuoco intraprende l’esplorazione nei panni di Eughenia Lenbach, una sorta di incrocio tra Jack Bauer e Lara Croft in versione nazista, a capo di una banda di spietati ninja musulmani intenti, tra il ’43 e il ’45, a mettere a ferro e fuoco le retrovie di un fronte, la Sicilia, che i nemici del Reich ritenevano ormai sicuro. La soldatessa (personaggio realmente esistito, assicura Buttafuoco, alla cui leggenda avrebbe attinto) è portatrice di Ritterkreuz, bella e letale, dalle molteplici identità, cattolica praticante, poliglotta, assassina veloce di lama e sul grilletto, capace di imporsi anche solo con lo sguardo a uomini più anziani e apparentemente più autorevoli di lei. È un soldato che ci crede ancora: combatte per una causa detestabile, e combatte bene, e rischia di vincere. Dovrebbe starci antipatica, finiamo per amarla. Perché?
Per avere risposta torniamo, dunque, a Franco Franchi. In quella scena, celata nella folla intenta a ridere alle smorfie del piccolo esilarante cabarettista, c’è anche la protagonista, sotto travestimento e intenta allo svolgimento di una missione che la porterà, di lì a poco, a mettere le mani – con un’azione di stupefacente efficacia – su materiali che potrebbero effettivamente capovolgere la sorte del conflitto. Il fatto decisivo, tuttavia, è Franco Franchi. È che nei porti siciliani, in mezzo alla gente comune che attende la fine del conflitto tra speranza e desolazione, di Hitler ormai si ride. È che il nazismo, quel nazismo che Eughenia Lenbach serve con la furia di una guerriera scesa dal Valhalla, è ormai sconfitto per decreto comune, per vox populi. Franco Franchi è l’alba di un pensiero collettivo. È, con le sue smorfie, l’angelo (o il buffone) che annuncia l’inizio di una nuova era in cui l’idea che ancora infiamma la mente della protagonista è stata scalzata dal novero delle ipotesi percorribili o perlomeno accettabili, per divenire oggetto di parodia o al più, ma non è poi molto diverso, “male assoluto”. La genialità di Buttafuoco è tutta lì: non c’è niente di più attraente di uno sconfitto che sappia di esserlo, e in qualche modo riesca a esserne orgoglioso.