Pininfarina e il modello danese

Non sono sicuro che si possa al contempo trovarsi al centro di un dibattito e analizzarlo utilmente dal di fuori. A ogni modo io ho abbastanza testardaggine da provarci e i lettori di Left Wing possono giudicare. E allora procediamo. Cominciando per prima cosa con un’ammissione da parte mia: il Corriere della Sera, che ha innescato la tenzone, non ha soltanto utilizzato gli incolpevoli scandinavi e gli ancor più incolpevoli scandinavisti come proiettili di una fionda mediatica puntata contro il centrosinistra. La mia impressione è che direzione, editorialisti e redattori del Corriere abbiano dato un’occhiata non distratta alle carte, il che forse è soltanto il loro dovere, ma è comunque un dovere a cui non si sono sottratti. Quando, dunque, Pininfarina chiede furibondo a Giavazzi, l’editorialista da cui appunto una settimana fa il dibattito è scaturito, se sa di cosa sta parlando, la mia impressione è che Giavazzi lo sappia benissimo. E per la verità né lui, né Treu, né Prodi, né Damiano, né io che appunto ho fornito lo studio in questione ci siamo mai sognati di dire che il modello danese si potesse trapiantare da noi come un rene dal donatore al malato. Infatti, e qui la questione si amplia e mi coinvolge come storico non solo scandinavista, il riformismo non ha costituzionalmente bisogno di paesi-guida. La teoria dei paesi guida presuppone una discontinuità qualitativa (e autoritativa) fra paese-guida (o partito-guida) e paese-ancella che non è mai esistita nell’ambito della sinistra europea.
Il riformismo si alimenta pertanto di un altro tipo di premessa metodologica, riassumibile nei seguenti punti: a) è auspicabile cercare ispirazione comparativa nell’ambito delle democrazie avanzate occidentali; b) è possibile trovare ispirazione fra le democrazie avanzate europee, di solito meno lontane dal nostro paese di altre; c) in quest’ambito, nessun paese è così perfetto da essere inimitabile e nessuno così misero da essere irreparabile; d) la teoria dell’irreparabilità (o come dicono i sudamericani, la fracasomanía) tutto è meno che progressista, tutto è meno che riformismo, a tutto serve meno che a vincere le elezioni; e) il riformismo non opera mai su tabula rasa, ma sempre su innesto, su continuità-discontuinuità, non per moderatismo, ma perché questa, semplicemente, è la società aperta, cioè perché solo così avviene la trasformazione.
Ecco, l’ho detto: società aperta e trasformazione. Ciò che le migliori esperienze di welfare democratico dimostrano è che esso ha accompagnato la società aperta e l’ha potenziata dal punto di vista economico-sociale, rendendola più ricca di soggetti protagonisti. Nella fattispecie, nell’ultimo quindicennio gli scandinavi hanno mostrato come riformando le politiche pubbliche (non disconoscendone, da sinistra o da destra, il potenziale e l’intento migliorativo) si possano abbattere alcuni dei diaframmi fondamentali che impediscono oggi a molti di realizzare i loro potenziali di partecipazione al mondo del lavoro. Hanno mostrato come trovare e poi continuamente adattare l’incrocio fra un welfare non passivizzante, una flessibilità non avvilente e una produttività globalizzante.
Nell’ambito delle politiche del lavoro, invece, il confronto fra economie avanzate ci dice che alcune (Spagna, Italia, Germania) pur con regimi di welfare diversi ottengono un grado analogo di separazione fra occupati e disoccupati, oppure tra garantiti e precari.
Ciò da noi, oltretutto, produce lavoro sommerso, economia informale, evasione fiscale e contributiva e rendite, perché se troppo pochi lavorano o comunque troppo pochi lavorano alla luce del sole questo diviene l’unico modo per allocare la ricchezza. Invece, uno scambio fra flessibilità (regolata!) a favore dell’impresa e indennità legata a formazione continua a favore dei lavoratori/disoccupati alla lunga erode il lavoro nero (perché sostiene, fornisce maggiori ambizioni e tiene materialmente occupati i senza lavoro), nonché la competizione al ribasso di cui il nostro paese è vittima. E non si dica che certe riforme sono possibili solo “nei paesi piccoli”, perché veramente non si coglie il punto. Essere paesi piccoli demograficamente ha soltanto reso impossibile il protezionismo, il che in alcuni casi (Portogallo, Grecia, Irlanda) ha portato a lunghe povertà, e in altri (quelli nordici) ha condotto da povertà non dissimile (specialmente Norvegia e Finlandia) allo sviluppo di qualità. Una scelta è sempre possibile. Soprattutto è ineludibile.
Il punto è un altro: il nostro paese ha da una parte un debito pubblico immenso e aggravato dalla destra, dall’altra imprenditori che vogliono flessibilità e sindacati che vogliono sviluppo qualitativo. Certo, ha ragione D’Alema nel puntualizzare che un tale sistema costa molto, e probabilmente ha ragione Laura Pennacchi sul fatto che piuttosto che ai danesi (massima flessibilità e massime spese pubbliche/assicurative per la disoccupazione/formazione) data la nostra situazione in partenza dovremmo cominciare a ispirarci agli svedesi (meno flessibilità in uscita, meno spese e regole più severe per la disoccupazione/formazione). Ma il punto rimane lo stesso: occorre cooperare per attingere alle molte risorse occultate del nostro paese, quelle che comunque mantengono (decorosamente ma improduttivamente) i tanti che non lavorano o lavorano precariamente, per convertirle in politiche di flessibilità e diritto alla formazione continua. Il dibattito sui modelli nordici serve a dire che questo sarebbe auspicabile, e che il riformismo progressista non può eludere una risposta fattiva.