Il suicidio della rivoluzione

Se si volesse trovare un volume in cui si è incarnata in Italia la rivoluzione conservatrice, difficilmente si potrebbe sopravvalutare il ruolo svolto dal Suicidio della rivoluzione del filosofo Augusto Del Noce. Pubblicato originariamente da Rizzoli nel 1979, è stato riedito lo scorso anno dall’editore Nino Aragno di Torino: operazione meritoria (purtroppo rovinata dalla quantità di refusi di stampa) da cui traiamo occasione per un commento così intempestivo.
La centralità della filosofia italiana del secolo XX per Del Noce non è casuale: il Risorgimento italiano infatti porta alle estreme conseguenze la contraddizione vista come centrale nella vicenda dell’Europa moderna, ovvero il dissidio tra Stato e Chiesa. Proprio in Italia la costruzione dello Stato si è dovuta fare non solo attraverso una separazione dalla Chiesa, ma addirittura contro la Chiesa. Nei paesi protestanti il cristianesimo, attraverso la formula cuius regio eius religio, è rimasto religione di stato, e continua in questa forma nello stato sociale contemporaneo dell’Europa settentrionale (ovvero nella finalità morale delle istituzioni del governo della nazione). Al contrario nei paesi cattolici lo Stato si è dovuto distinguere dalla religione (che aveva nella Chiesa un’organizzazione autonoma dai poteri pubblici), per cui la politica si è sviluppata come processo di secolarizzazione della religione. Non è quindi casuale se storicamente Francia, Spagna e Italia abbiano avuto un ruolo così importante nello sviluppo della cultura illuminista, della scienza e della politica moderna. Questo processo di dissacrazione ha raggiunto il massimo sviluppo nel pensiero rivoluzionario, quello cioè che nel modo più coerente ha portato il sacro sulla terra, facendo della rivoluzione la costruzione mondana del divino. Proprio in Francia, Spagna e Italia il pensiero rivoluzionario si è svolto nel modo più consequenziale, e sempre in questi paesi ha prodotto il suo più coerente rovesciamento, ovvero il nazionalismo e il fascismo (ricordiamo l’analisi gramsciana che vede nel fascismo italiano un’irradiazione del nazionalismo integralista francese, peraltro dispiegatosi poi nel governo collaborazionalista; per Del Noce ovviamente il nazismo appartiene a un piano separato, ovvero quello del neopaganesimo). E ancora in questi paesi la contestazione e secolarizzazione si è svolta nel lungo dopoguerra nel modo più corrosivo. Nella vicenda italiana Del Noce individua una centralità della cultura torinese, della città cioè che da un lato costituisce la porta naturale della cultura francese in Italia, dall’altro rappresenta l’anti-Roma per eccellenza per il ruolo svolto nel Risorgimento.
La diagnosi di Del Noce è molto netta: l’eurocomunismo italiano, che allora sembrava irradiarsi con forza nei paesi dell’Europa meridionale, sarebbe fallito e il suo posto sarebbe stato occupato da una ripresa dell’azionismo torinese (e di Bobbio in particolare); in Italia il modernismo cattolico (ovvero la Democrazia cristiana) si sarebbe dissolto; il compromesso storico allora inveratosi nei governi di unità nazionale avrebbe avuto vita brevissima. Il paese non avrebbe potuto fare altro che proseguire la sua vicenda fino alla completa crisi dei propri riferimenti culturali, la completa dissacrazione della propria sfera pubblica, il totale disorientamento della propria borghesia, la corrosione delle culture politiche storiche in una dialettica opportunistica in cui il discorso pubblico può esclusivamente appellarsi a valori regolativi vuoti, come «progressismo» e «tradizionalismo», un generico «nuovo» opposto a un generico «vecchio», con ogni parte culturale e politica impegnata con argomenti sofistici a dipingere se stessa come «nuovo» e gli avversari come «vecchio». C’è da chiedersi se questo non sia un ritratto quanto meno plausibile della successiva vicenda italiana, e se ciò sia dovuto al ruolo normativo avuto dall’autore di questi pensieri, che civetta in chiave antigramsciana con la critica di destra e di sinistra al Pci (che quindi ha potuto largamente circolare nella cultura socialista degli anni ottanta), o a qualche punto di forza dell’analisi da lui dispiegata.
Il pensiero di Del Noce è solo apparentemente tradizionalista, cioè volto a una restaurazione dei valori religiosi tradizionali e del pensiero tomistico, ma in realtà si dimostra più interno di quanto sembri al movimento storico da lui criticato. Egli infatti ragiona per negazioni e rovesciamenti esattamente come i suoi personaggi. Una volta che il presente abbia svolto tutta la sua carica di annientamento dei valori morali, religiosi e comunitari, questi dovrebbero riproporsi integralmente per semplice negazione della negazione. Il potenziale distruttivo di una tale ricostruzione è bilanciato nella mente del suo autore dalla parabola religiosa: come cioè nel cristianesimo il divino si è dovuto incarnare e ha dovuto essere ucciso per poi risorgere, allo stesso modo la premessa per il risorgere del cristianesimo è la sua completa incarnazione (secolarizzazione) a cui segue necessariamente il successivo suicidio della rivoluzione, ovvero la riproposizione del presente in una forma totalmente dissacrata. Si può se non altro rimanere perplessi di fronte a un uso così spericolato e nominalistico della dialettica dello spirito. E chiedersi se la vicenda narrata da Del Noce non ci consegni problemi ben più complessi di un semplice ritorno della tradizione così com’era.
Certo da un lato abbiamo qualche argomento in più per spiegarci perché la rivoluzione conservatrice italiana, partita da posizioni ultraliberali, abbia inevitabilmente incontrato il clericalismo. Questo movimento che va dal fascismo di sinistra alla contestazione sessantottina, e da questa fino al «meno stato, più mercato», per giungere infine allo scontro di civiltà e all’ateismo clericale (ovvero a una tradizione cristiana riproposta in forma dissacrata), non può essere imputato all’intera Italia, ma di certo calza perfettamente a una parte della borghesia italiana di cui il volume di Del Noce sembra la biografia intellettuale. Verrebbe da concludere che in Italia così come è difficile il conservatorismo borghese sia ugualmente difficile il riformismo borghese.
Per tutti gli altri resta una questione ben più grande: non c’è dubbio infatti che oggi Italia e Francia siano i malati d’Europa, in cui svolgono il ruolo di moltiplicatore di tutte le crisi politiche e culturali. La diagnosi può presentarsi in questo modo: in Italia e Francia la società civile è totalmente politicizzata, ovvero si sono rotti gli argini tra gli statuti della società civile (etica ed economia) e quelli della società politica. Il segno di questa rottura ha un valore opposto nei due paesi: in Italia lo Stato e la politica si sono dissolti nel patrimonialismo e nella «religione dei valori», in Francia al contrario è la Ragion di Stato (incarnata nel gollismo) ad avere occupato la società con conseguenze catastrofiche. Per entrambi i paesi il problema maggiore è quello di ricostruire una sfera pubblica distinta dalla politica, e crediamo che questa operazione sia assai più dolorosa e lunga che una semplice negazione della negazione. Non c’è da stupirsi quindi se la Conferenza episcopale italiana vede come un’urgenza il suo intervento nella politica italiana, dato lo spappolamento del paese. Ma vediamo anche quotidianamente la difficoltà che anche il cattolicesimo incontra quando si ripropone in forma pubblica: riesce a occupare la sfera civile solo a prezzo di dissacrarsi nella spettacolarizzazione carismatica e diventa oggetto di continua strumentalizzazione politica. La crisi si manifesta per la religione nella forma di un bivio di fronte a cui scegliere: o guadagnare la sfera pubblica, o guadagnare le coscienze. Di qui la questione a cui ci troviamo di fronte: come ricostruire un’etica pubblica in Italia riconoscendo come assunto non rimovibile la frantumazione dei valori tradizionali nella società, ovvero l’impossibilità di rinchiudere tutta l’etica nella religione. Da parte laica non possiamo che assumere due direttrici: non possiamo sottrarci al confronto con la Chiesa, l’istituzione che più generosamente si sta spendendo nella ricostruzione di una sfera pubblica in Italia, argomentando distesamente posizioni anche diverse e contrastanti (come questa rivista, nel suo piccolo, sta facendo da tempo); dall’altra parte non dobbiamo pretendere che la religione si rinchiuda esclusivamente nella sfera privata. Significherebbe accettare (anche se in modo rovesciato) il punto di vista di quella parte della borghesia che ha ormai chiuso il suo ciclo storico, e che aizza la guerra di religione per trasformare il proprio fallimento in una catastrofe generale.