Né Fiorani né opere di bene

La permanenza del governatore della Banca d’Italia a Palazzo Koch ricorda gli ultimi mesi di Yasser Arafat. Prigioniero nel suo ufficio, circondato dall’esercito nemico e minacciato di espulsione a intervalli regolari. Antonio Fazio oggi è circondato da una sorta di cordone sanitario dell’insolenza. Il suo pupillo Gianpiero Fiorani è finito nella polvere e ora rischia di finire anche al fresco. Dopo avere visto entrambi i suoi avversari sconfitti nella cruenta battaglia economica e giudiziaria di questa estate, Luca Cordero di Montezemolo comincia a pregustare l’inverno del suo trionfo: i giornali tornano a riempirsi di indiscrezioni e ricostruzioni dai toni sempre più forti a proposito di Giovanni Consorte e dell’Unipol, compagnia assicurativa delle cooperative. Ancora una volta, nel paese in fondo alle classifiche mondiali sulla libertà di stampa, l’inchiesta giornalistica precede e propizia l’inchiesta giudiziaria.
Dalla morte della Prima Repubblica, in questi anni il dibattito si è concentrato sul prepotere dei partiti e dello stato: un sistema delle imprese fondamentalmente sano costretto a pagare la tassa di un sistema politico antiquato; un nord produttivo e proiettato in Europa tenuto al palo da un Mezzogiorno arretrato, ostaggio delle clientele e mantenuto a spese della parte più sana e moderna del paese. Tale è stata la lettura della crisi italiana che ha prevalso in questi anni. Eppure proprio nella vicenda economica e giudiziaria squadernata sui grandi giornali sin dalla fine di luglio abbiamo visto il vero volto di questa Italia moderna. In un crescendo di indiscrezioni da teatro popolare abbiamo letto dei rapporti tra la moglie del governatore e il piccolo banchiere di provincia, tra il pasticciere siciliano a capo dei commercianti italiani e il palazzinaro di Zagarolo che voleva conquistare il Corriere della sera. Tutta un’Italia di provincia che si era messa improvvisamente in moto, convinta che il suo momento fosse venuto. E il salvataggio della banca padana da parte di Fiorani forse non è l’unica spiegazione possibile di questo curioso intreccio di alleanze tra la Ciociaria e il bergamasco.
Se al declino economico si accompagna il declino civile, il comportamento di Antonio Fazio è forse lo specchio della crisi, certo non ne è la causa. Nel paese del gigantesco conflitto di interessi del presidente del Consiglio, in pochi trovano qualcosa da ridire sul conflitto di interessi di Luca Cordero di Montezemolo, che con Silvio Berlusconi deve trattare al tempo stesso come rappresentante della Confindustria e come capo di una Fiat in piena crisi. In pochi hanno ricordato per esempio il mesto corteo di qualche anno fa, con i massimi vertici dell’azienda guidati da Umberto Agnelli in processione ad Arcore, con il cappello in mano e la lingua tra i denti. In pochi hanno qualcosa da ridire sul fatto che Montezemolo controlli la Stampa come presidente della Fiat, il Sole24ore come presidente della Confindustria e il Corriere della Sera come componente del patto di sindacato Rcs. E in pochissimi hanno avuto qualcosa da ridire quando Corriere della sera, Sole24ore e Stampa hanno scatenato una campagna violentissima sulla condotta degli immobiliaristi e del governatore nella battaglia per il controllo delle banche e nella scalata alla stessa Rizzoli-Corriere della Sera.
Nelle sue numerose interviste Montezemolo rivendica con orgoglio la superiore moralità di quell’aristocrazia di cui si sente il principale rappresentante. Sottile ironia della storia, perché anche il capostipite della dinastia dell’automobile ebbe i suoi guai giudiziari quando proprio la Stampa si occupò di come aveva estromesso i suoi soci e preso il controllo dell’azienda, in modi forse non troppo dissimili da quelli utilizzati dagli odierni inquisiti. Nel processo che subito seguì gli articoli pubblicati dal quotidiano di Torino il fondatore della Fiat poté giovarsi però dello scoperto appoggio del ministro della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, il quale successivamente non esitò a presiedere il collegio difensivo nel processo d’appello, che si concluse come è facile immaginare. Non molto tempo dopo il nonno dell’Avvocato decise saggiamente di comprarsi la Stampa.
Da allora non sembrerebbe essere passata molta acqua sotto i ponti. Il parallelo tra gli scandali bancari e la stagione di Mani Pulite può apparire perfino grottesco, ma ha almeno una ragion d’essere. E’ come se l’avvicinarsi della crisi economica, diffondendo la consapevolezza dei problemi e della necessità del cambiamento, scatenasse la reazione dei feudatari terrorizzati dal possibile ritorno di un potere centrale deciso a ripristinare la sua autorità. In un paese in cui i lupi si travestono da agnelli e gli intellettuali si improvvisano pastori di anime, forse il segnale più autentico del declino è qui, in questa ricorrente insurrezione dell’establishment, percorsa da pulsioni anarchiche e fratricide. Gli editoriali sulla prima pagina del Corriere della sera a firma di Francesco Giavazzi coincidono ormai alla lettera con i comizi virtuali che Beppe Grillo pubblica sul suo blog. Se il primo qualche tempo fa scriveva letterine in inglese al Financial Times per chiedere l’intervento della City di Londra per destituire con la forza il governatore della Banca d’Italia, il secondo promuove la campagna “Fazio vattene” e acquista un’intera pagina sull’International Herald Tribune per pubblicare l’elenco dei parlamentari italiani condannati dalla giustizia, si tratti di abuso edilizio o di condanne che risalgono al processo Enimont.
L’azione della magistratura milanese, infine, si trova ancora una volta al centro di una battaglia politica. A fine luglio la Procura non ha esitato a sequestrare in via cautelare – cioè senza neanche lo straccio di un regolare processo – la maggioranza delle azioni della banca Antonveneta, nominando alla vigilia dell’assemblea un custode giudiziario il quale ha lasciato che la minoranza olandese nominasse i vertici dell’Istituto e ne assumesse il controllo fuori da ogni normale regola di mercato.
Tutto questo è accaduto soltanto pochi mesi fa, nel silenzio compunto di tutti o quasi tutti i nostri intellettuali maestri di liberalismo e di garantismo, cantori instancabili delle virtù del mercato e dello stato di diritto, rimasti improvvisamente senza voce. Quegli stessi intellettuali che oggi, mentre la partita volge al termine, sui grandi giornali dibattono con leggerezza del modello danese e di quanto esso sia applicabile all’Italia. Viene da domandarsi se il modello danese in questione non sia quello della corte di Elsinore.