L’indole speculativa dell’enciclica

La lettera enciclica Deus caritas est ha una breve introduzione ed è divisa in due parti: la prima, spiega il Pontefice, ha un’indole più speculativa: in essa si precisano “alcuni dati essenziali sull’amore che Dio, in modo misterioso e gratuito, offre all’uomo, insieme all’intrinseco legame [intrinseco vinculo] di quell’Amore con la realtà dell’amore umano [humani amoris natura]”. La seconda parte tratta invece dell’ “esercizio ecclesiale del comandamento dell’amore per il prossimo”. Questa divisione, e il carattere speculativo della prima parte, mi autorizzano a condurre un piccolo esercizio di lettura del tutto parziale, incentrato su un unico punto, che non consente di (ma neppure intende) restituire il significato complessivo dell’enciclica papale. Il significato delle parole, d’altronde, non è indipendente dal contesto e dalla circostanza. E vi sono parole che pesano meno per il loro contenuto che per il solo fatto d’esser dette: lasceremo dunque che gli storici della Chiesa e del mondo intero (oltre che i giornalisti) valutino che peso dare a questa Enciclica di inizio pontificato, e ci prenderemo la libertà di speculare un po’, al solo scopo di mostrare la potenza (o forse l’impotenza) della speculazione. Ci sono due temi che, indipendentemente dalla loro centralità, sembrano incontrare l’interesse prevalente: il rapporto fra eros e agape, e il rapporto fra politica e fede. Trascureremo anche quelli.
L’Enciclica comincia con la prima lettera di Giovanni, versetto 4,16: “Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. In latino suona: «Deus caritas est, et, qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo manet». Il filosofo speculativo si ferma subito, e non riesce ad andar oltre senza provare a pensare, cioè portare al concetto, quello che così è scritto e ripetuto: in… manet. Non gli basta infatti che il dimorare dell’uomo in Dio, e di Dio nell’uomo, sia inteso come un’immagine o una metafora, poiché subito ha da chiedere: immagine o metafora di che? Dell’unione con Dio? Del vinculo di Dio con la natura dell’uomo? Ma allora lasciamo pure perdere la metafora e andiamo al dunque: come deve essere pensato questo vincolo? Non si tratta infatti di un vincolo qualunque, ma di un intrinseco vinculo, per il quale l’uomo non è semplicemente legato a Dio, ma ‘dimora’ in lui. E se in… manere è una metafora, è proprio perché parlare di semplice vinculo non basta.
Al filosofo speculativo non basta neppure che lo si inviti a pensare per esempio che l’uomo che ama ed è legato a Dio dimora in Dio in ispiritu, nello spirito. Non perché così non sia, ma perché ha bisogno, ancora, di capire. ‘In spirito’ può significare infatti: non fisicamente, non corporalmente, non materialmente, ma… in spirito, appunto. Finché però ‘in spirito’ ha un significato soltanto negativo, mi dice cioè il modo in cui non va inteso il rimanere in Dio dell’amante, e il rimanere dell’amato nell’amante, io so come non devo pensare l’unione in Dio e con Dio, ma non so ancora come devo positivamente pensarla. Viene facile perciò cadere nel comodo rifugio della metafora: non dico che chi ama dimori, rimanga o permanga veramente, realmente, in Dio, ma che è come se…
Non basta. In sede di speculazione, almeno, non basta. Se la prima parte del testo avesse davvero un’indole speculativa, dovrebbe gettare qualche lume sulla natura di questo in-manere, invece di preoccuparsi di difendere la concezione cristiana dell’eros e il modo in cui questo si inserisce nel movimento dell’agape. Se quell’in-manere non viene pensato, tutto quel che viene dopo poggia infatti, dal punto di vista speculativo, su un abisso.
E l’immanenza in Dio, nell’amore, non viene pensata. Non viene pensata nemmeno quando il Pontefice si spinge fino a scrivere che la Bibbia ci mette dinanzi “ad un’immagine strettamente metafisica di Dio”. Così leggiamo: “esiste un’unificazione originaria dell’uomo con Dio – il sogno originario dell’uomo –, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell’oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi – Dio e l’uomo – restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola”. Ancora una volta, vediamo bene come l’in-manenza non deve essere pensata, come fondersi e affondare: qui il Papa ritrova la tradizionale diffidenza della Chiesa istituzionale verso i santi deliri della mistica. Ma come invece vada pensata la coniunctio fra l’uomo e Dio in cui due, pur restando perfettamente due, divengono tuttavia pienamente uno, questo – che è il tema speculativo per eccellenza – si limita ad essere soltanto asserito. E una semplice asseverazione si rivela così anche la pretesa unificazione della forza possessiva di eros (dal due verso l’Uno) e il dolce dono di agape (dall’Uno verso il due).
È come se Ratzinger tornasse sui luoghi della grande tradizione filosofico-teologica, ma per prendere come soluzione ciò che nella speculazione vive solo se è sempre nuovamente problema. Lo so bene: figuriamoci se può essere la prima enciclica di un papa il luogo per mettere in aporia, e in movimento, una così veneranda tradizione. Però se essa va conservata, e frequentata, occorre metterla davvero in esercizio, evitando di ripeterla stancamente, e riprendendola piuttosto ogni volta daccapo.
Se la Chiesa vuole (come vuole) che qualcosa di questa tradizione resti, permetta allora che non si riconosca alla sistemazione dei significati dell’amore condotta per sommi capi e perciò anche sommariamente nella prima parte dell’enciclica il carattere, l’indole di una genuina speculazione. Avremmo potuto provare a sfilare via dal testo perché tendenziosamente rappresentati l’eros, oppure il fondamento di giustizia dello stato. Per amore della filosofia, lasciamo tutto, e ci teniamo per noi solo una certa idea del compito del pensiero.