Israele oltre la trappola identitaria

Le elezioni appena svoltesi in Israele costituiscono a nostro giudizio uno spartiacque tra una seconda repubblica di infinita transizione e una terza, segnata dal ritorno della politica come mezzo per affrontare e risolvere i problemi di fronte al paese. Questo è il big bang innescato e quasi incarnato da Sharon, che langue ancora in un letto d’ospedale e sta per essere spostato in un centro per lungodegenti. Se infatti leggiamo la storia politica d’Israele, vediamo una prima repubblica incentrata sul partito laburista e sui padri fondatori. Incentrata sul proporzionalismo puro e sui partiti. Essa finisce nel 1977, con l’ascesa della destra del Likud – fondato pochi anni prima anche da Sharon – e il crearsi di un bipolarismo nel quale il Likud è sempre il braccio della bilancia più pesante, perché la sicurezza dello Stato diventa la politica dello Stato, soprattutto per l’emergere lento ma costante della questione palestinese. In questa fase i valori intorno ai quali si effettua la scelta elettorale sono le identità fisse, rigide e poco mediate dalla politica quotidiana, e i perni su cui ruotano sono le personalità carismatiche, come Rabin, Peres, Begin, Shamir e Sharon. Si tratta di un fase di transizione lunghissima, nella quale si ricorre a risorse carismatiche e a cambi di legge elettorale – come l’elezione diretta del premier – per cercare di guidare in qualche modo la nave dello Stato in acque assai agitate: dal rafforzarsi dell’Olp e dalla guerra che ne conseguì in Libano, alla traumatica macchia sulla propria identità rappresentata dai massacri di Sabra e Chatila; dallo scoppio dell’Intifada nel 1987 e dall’incertezza del mare aperto del dopo guerra fredda, alla conseguente prima Guerra del Golfo del 1991, al processo di Oslo e al mutuo riconoscimento tra Palestinesi e Israele.
Tutto ciò entra in crisi con l’uccisione di Rabin nel 1995 e l’esplosione del campo della sinistra, che senza il suo leader non ha più nemmeno una proposta per fare la pace. In un qualche modo Sharon si rende conto di questo fenomeno, e di quanto esso segni anche il suo campo politico, quello della destra, che in assenza di un contrappeso tende sempre di più a estremizzarsi e a fare delle identità riconosciute degli idola assoluti e intoccabili: “terra” e “Israele” coincidono sempre di più. Ma Sharon sa che è il contrario: “terra” e “Israele” divergono sempre di più, per ragioni demografiche, sociali ed economiche. Dovesse Israele mantenere la presa su ogni centimetro di terra conquistata perderebbe prima o poi – a scelta – o il suo carattere ebraico oppure quello democratico. In più, non darebbe risposta alla crescente questione sociale, in primo luogo il costante aumento degli israeliani sotto il livello di povertà. E così nasce il big bang di Sharon, con la sua uscita dal Likud del novembre 2005 che destruttura anche il campo della destra. Cioè introduce la terza repubblica, dove la politica può tornare a essere sovrana rispetto alle identità nate da un confronto esistenziale con i palestinesi. L’uovo di Colombo, in questo senso, è la ricetta unilaterale del ritiro da Gaza. Non si discute con i palestinesi, si fa e basta, secondo procedimenti decisi autonomamente. I palestinesi non sono più il termine di paragone terrorizzante per la vita degli israeliani: lo diventano piuttosto le proprie condizioni di vita, a partire dal sempre più vuoto portafoglio.
Con l’uscita di scena di Sharon, nelle scorse lezioni sono i partiti a contare e a prendere voti, non le personalità. A partire dall’affermazione del partito Israel Beiteinu, che raccoglie il voto degli emigrati russi e che si candida con undici deputati e una forte unità interna a guidare la destra israeliana: un suo popolarissimo esponente, Yosef Chagall, non a caso ha affermato che “i risultati delle elezioni sono il fallimento delle vecchie élite e la nascita di quelle nuove”. In primo piano balza la questione sociale, non più coperta da questioni identitarie di sopravvivenza. E a naufragare è Benyamin Netanyahu, colui che propone non solo una destra identitaria, ma è anche un ministro delle Finanze liberista, che tagliando le tasse indirizza ben 6 miliardi di Shekel al trenta per cento più benestante della popolazione – e più della metà al dieci per cento più ricco – mentre assegna solo 1,7 miliardi di shekel al restante 70%. Mentre il 63% dei pensionati non ha pensione, il 25% di loro vive sotto la soglia di povertà e un quarto dei sopravvissuti dell’Olocausto sono poveri. Il Likud tracolla così a 12 seggi, a pari merito con lo Shas, e ritorna per la prima volta ai livelli pre-1977. Il partito laburista scampa allo stesso destino, grazie all’intuito politico del suo segretario Amir Peretz, che da sindacalista aveva rotto con la tradizione laburista incentrata sulla sicurezza dello Stato per combattere una battaglia – prettamente sefardita – per la riscossa dei ceti più deboli, incassando 20 seggi. Oggi è al centro dei corteggiamenti della destra in rotta per guidare lui in prima persona una coalizione assai larga, ma nonostante questa illusoria e momentanea centralità politica non potrà esimersi dal proseguire una faticosa marcia per la definizione di una nuova identità laburista per questa terza repubblica, dato che il compito è tutt’altro che finito.
Se infatti la questione sociale è stata intercettata almeno in parte dai nuovi laburisti, essa non si esaurisce certo in questo partito. La sorpresa in questo senso – a parte Kadima – è il partito dei Pensionati, che prende ben sette seggi e contende a Peretz il monopolio sulla questione sociale. Uno schiaffo in faccia all’ex sindacalista che ne aveva fatto il centro della sua campagna, e il segno della fluidità di questa nuova repubblica fondata sulla politica. Perché tutte le nuove apparizioni precedenti – lo Tzomet nel 1996, Ysrael B’Aliyah nel 1999, lo Shinui nel 2003 – sono avvenute su basi politiche identitarie. Oggi, abbiamo i pensionati che parlano di sé in prima persona. E poi, naturalmente, abbiamo Kadima, che incassa un ottimo risultato, al netto di una delusione tutta mediatica per un esito che i mezzi di comunicazione dicevano poter essere oltre i 40 seggi e che in realtà tocca esattamente il numero di seggi preconizzati dai sondaggi dello scorso novembre sulla base dei quali Sharon decise di fondare il nuovo partito.
Kadima ha un compito storico, perché è anche il partito che più può interpretare questa nuova terza repubblica: partito della nuova repubblica per eccellenza, in quanto privo di identità strutturata nel passato, non può che affidarsi alla politica riformista e incarnare l’anima del nuovo governo. Che deve presto prendere decisioni assai importanti, su come riprendere il processo di coesistenza con i palestinesi, e dunque lo sviluppo economico e sociale del paese. Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet fino a qualche mese fa, e oggi parlamentare di punta di Kadima, ha messo le mani nel piatto: in un rapporto filtrato alla stampa da poco, ha affermato che gli assassinii mirati sono meno efficaci degli arresti, perché così non è possibile ottenere informazioni aggiuntive. Mentre invece l’intelligence israeliana dovrebbe concentrarsi sull’anello debole della catena, quei corrieri ai quali si affidano oggi le organizzazioni terroristiche palestinesi per paura delle intercettazioni telefoniche: pezzi pregiati perché di solito conoscono gli operativi di molte cellule e portano con sé abbastanza prove da farli condannare oppure reclutare come doppi agenti. Come si vede, si tratta di un commento importante. Per la persona che lo fa e per il merito delle cose dette: perché quando anche gli apparati di sicurezza cominciano a ragionare su diverse modalità di intelligence, soprattutto nel senso di privilegiare l’efficacia su questioni identitarie di rappresaglia, vuol dire che è arrivata una nuova fase politica, fondata su nuovi soggetti politici e sulla richiesta di un nuovo patto costituente. Vedremo se nei prossimi mesi la terza repubblica israeliana saprà trovare dentro di sé la forza e le ragioni per scriverlo effettivamente, quel patto, e aprire così il paese a un futuro sicuro e in pace.