La crisi d’identità dell’hardcore punk

Assalto e tempesta. Brutalità e velocità. Se alcuni secoli separano la romantica corrente letteraria dalla definizione del canone hardcore punk, l’assonanza intesse un sottile filo evolutivo basato sulla frenesia, sulla comune ricerca del massimo impatto emotivo ed espressivo. Impatto devastante, nel caso del genere musicale: cercato, voluto e spesso assolto nell’esplosione annichilente di suoni e grida a velocità della luce. Se assalto/brutalità e tempesta/velocità fossero gli unici termini dell’equazione, tuttavia, entrambi i generi non conoscerebbero particolare sviluppo; ciò che li rende particolari non è solo la solidità dei principi in cui si radicano, ma qualcosa in più. Inventività, ad esempio.
Un ingrediente che, a tratti, sfugge ai Some Girls: originari di San Diego, nascono nel 2002 come una sorta di supergruppo hardcore che allinea il cantante Wes Eisold (già American Nightmare), il chitarrista Rob Moran (Unbroken), il batterista Sal Gallegos (Secret Fun Club), il bassista Justin Pearson (The Locust) e il secondo chitarrista Christopher Sprague (Tristeza). Fedeli al canone tanto nelle composizioni quanto nella progressione carrieristica, inanellano in fretta il 7” d’esordio (“The Rain Ep”) e il successivo “The Blues Ep” per raccoglierli, nel 2004, nel primo full-lenght: “All My Friends Are Going Death”. Un tour sulle due coste Usa e un cambio di formazione (Sprague viene rimpiazzato da Chris Rowell dei Plot To Blow Up The Eiffel Tower) preludono all’incisione del terzo ep “The D.N.A. Will Have Its Say”. Nell’autunno 2005 Moran lascia per Nathan Joyner, subito dopo le registrazioni di “Heaven’s Pregnant Teen”, pubblicato a Gennaio 2006.
Rabbiosissimo concentrato di adrenalina e acidi gastrici, “H.P.T.” propone un sound frammentato e atonale, tra Dillinger Escape Plan e Eyehategod. Rispetto ai modelli, tuttavia, la minimalistica durata dei brani (da pochi secondi a meno di tre minuti, con la sola eccezione dei 9’:07” di “Deathface”) e la voluta tendenza alla ripetitività limitano l’esito finale. Duri e puri come nella migliore iconografia punk, i Some Girls cercano di raggiungere la sfera della sperimentazione, e in alcuni momenti ci riescono anche; per contro, l’insistenza su alcuni passaggi li confina all’area della provocazione fine a se stessa. Per citare il nuovo arrivo Rowell, l’hardcore “ha le sue uniformi musicali” e obiettivo della band è “creare qualcosa che non rientri in un formato di facile consumo”, senza nascondere che “vogliamo anche punire, e intendo seriamente, la gente”.
Purtroppo, la missione riesce a metà e se ”Dead In A Web”, “Marry Mortuary”, “Totally Pregnant Teens” e “Beautiful Bone” danno la misura di quello che la band è in grado di fare, il resto è spesso irritante ripetizione: dagli inutili 30” di feedback in “Bone Metal” alle insulse “Retard & Feathered” e “Ex Nuns/Dead Dogs”, fino alla conclusiva “Deathface” la cui qualità di canzone dura giusto un paio di minuti. Poi, diventa masturbazione elettrica.
La strada dell’innovazione fine a se stessa è lastricata di buone intenzioni; tuttavia, i Some Girls mostrano di possedere le qualità necessarie per percorrerla nel giusto verso. A patto di rinunciare alla pedante reiterazione del canone e delle “uniformi” mentali: chi sono e cosa suonano è chiaro; enunciarlo a ogni nota o verso (cover-manifesto di “Religion” dei P.I.L. inclusa) induce il sospetto che i primi a dubitarne siano loro stessi.