La tensione etica del calcio di una volta

Non c’è più il calcio di una volta, se n’è andato via con le mezze stagioni, e si è portato dietro il fair play, il valore educativo dello sport, il minestrone che faceva mia nonna e un sacco di altre belle cose dal sapore antico. Il guaio, col calcio di una volta, è che qualcuno dovrebbe prendersi la briga di certificare l’ora del decesso. Se De Rossi due settimane fa, calcio di oggi, segna con la mano e poi va a costituirsi dall’arbitro, lo fa perché ha paura di venire scoperto, non per onestà sportiva, e si discute se andava ammonito lo stesso. Ma come la mettiamo con Maradona, che con un gol di mano ci vinse un mondiale, guardandosi bene dal confessarlo e chiamando poi in causa, con la consueta modestia, la mano di Dio? Era già calcio di oggi quello del 1986? O era calcio di una volta con i primi segni di crisi dei valori? Si dice il gioco violento, la necessità di tutelare i campioni, e il pensiero corre a Totti (calcio di oggi), che rischia di saltare il mondiale tedesco. Ma che calcio era, quella sera del 1969 a Buenos Aires, finale di Coppa Intercontinentale, quando i giocatori dell’Estudiantes, certamente consci della propria identità e fieri dei propri valori, puntarono il milanista Nestor Combin, argentino di passaporto francese, reo quindi di essere un traditore? Combin uscì dal campo sanguinante, col setto nasale fratturato, solo per passare dall’infermeria alla cella con l’accusa di renitenza alla leva, e ci volle tutta la notte ai dirigenti rossoneri per convincere le autorità argentine a liberarlo. Se si è finiti col giocarla a Tokio, la Coppa Intercontinentale, non è certo per merito dell’ufficio turistico nipponico.
Gli errori arbitrali, gli inaccettabili errori arbitrali che falsano il campionato. Non c’è domenica in cui almeno un terzo dei risultati del campo non venga contestato. La soluzione, pare, sta nella moviola in campo. Sarà, ma siamo ancora in attesa di sapere se era gol o meno il tiro di Hurst nei tempi supplementari di Inghilterra Germania, finale della Coppa del mondo del ’66, che garantì il titolo ai britannici.
A volte non si tratta di errori, ma di patente malafede, e il pensiero corre a Byron Moreno, e al mondiale coreano. Troppi gli interessi in gioco, nel calcio di oggi. Chissà che interessi erano in gioco ai mondiali cileni del ‘62, quando l’Italia fu bloccata proprio dal Cile, e dall’arbitro inglese Aston. Mica ecuadoriano, inglese. Del paese in cui i valori sportivi si trasmettono con il patrimonio genetico. Forse è morto da tempo, il calcio di una volta. Forse non si sentiva troppo bene nemmeno nel 1954, quando nella finale mondiale la Germania occidentale sovrastò atleticamente un’incantevole Ungheria, solo per finire in blocco in sanatorio una settimana dopo in preda all’ittero. Forse bisogna andare a prima della guerra, per ritrovare il calcio di una volta. Tempi sani quelli, di forte tensione morale, coi treni che arrivavano in orario, e i campioni azzurri che facevano un virile saluto romano, prima delle partite. Meglio non pensarci, tanto martedì c’è il ritorno dei quarti di Champions league.