Chi ha stretto il cappio a Consorte

In quel singolare Paese teorico della sovranità e del potere moderno che è la Francia, restano in piedi un Capo dello Stato e il suo fedelissimo ministro degli Esteri anche se fanno scrivere da propri accoliti ai magistrati finte lettere anonime secondo le quali è il loro avversario ministro degli Interni ad aver intascato tangenti internazionali. E anche se il ministro degli Esteri suddetto fuori dalle proprie competenze chiama un generale degli spioni e lo incarica di un’inchiesta riservata e parallela contro il suddetto ministro degli Interni. Da noi, che della sovranità e del potere rispettiamo solo la parvenza finché coincide con equilibri che traggono forza dalla finanza di relazione e dall’improprio intreccio di connivenze banco-industriali, l’ex capo di Unipol Gianni Consorte grazie a una raffica di intercettazioni date in tempo reale alla stampa “interessata” è stato travolto sotto il peso di accuse infamanti, la più grave delle quali è esser stato parte attiva e integrante di un’associazione a delinquere volta per anni ad aggirare il mercato, alterarne i corsi di Borsa e ribaltarne gli assetti proprietari. Mentre alla centrale di tutte le intercettazioni con centomila file non autorizzati, la Telecom di Marco Tronchetti Provera, i quotidiani confindustriali riservano l’imbarazzato rispetto che si deve all’innocente ingiustamente calunniato. Ma ci pensate solo un secondo, che cosa sarebbe avvenuto se il Cnag di Giuliano Tavaroli avesse lavorato per un gestore telefonico della Legacoop? Oppure di un operatore posseduto da Berlusconi? Pensate davvero che in questi giorni avreste letto senza commenti la compita lettera inviata da Tronchetti ai suoi dipendenti, “siamo 85mila stimati professionisti”? Oppure i magistrati avrebbero proceduto ad arresti a raffica?
La domanda sorge spontanea. E aiuta ancor meglio a capire perché, dalla nostra curva impenitente di tifosi delle cose come stanno e non come “lor signori” vorrebbero che fossero, andiamo del tutto controcorrente e battiamo le mani a Giovanni Consorte. Rendiamo omaggio alla sua decisione di battersi, di compilare e inviare corposi dossier alle Procure che lo indagano, di annunciare e depositare una raffica di azioni legali contro coloro che lo hanno accusato. Non perché si sia noi depositari di “una” o tanto meno “della” verità, a proposito di quanto avvenne su Bnl da parte di Unipol, e della sostanza dei rapporti intercorsi negli anni e nelle scalate del 2005 tra Consorte, Gnutti, Fiorani e Ricucci. Ma il solo fatto che a distanza di mesi non si sia chiuso in un silenzio rassegnato, e non si sia volto in strumento cooperante delle stesse accuse dei pm – com’è capitato al Fiorani “ristretto”, ormai pronto a dire qualunque cosa – dice qualcosa e più di qualcosa, del fatto cioè che la pasta di Consorte fosse diversa da quella del banchiere truffatore di Lodi, e che nel suo caso non siamo in presenza di uno smargiasso, convintosi di poter violare leggi e regole per il solo fatto che Bankitalia gli aveva consentito negli anni recenti oltre venti acquisizioni per crescere. Anzi, che Consorte si batta è una buona cosa non solo per lui, naturalmente, ad onta di chi credeva di vederlo piegato innanzitutto dal cancro che sta affrontando. E’ una cosa ottima innanzi tutto perché Consorte e la vicenda della “sua” Unipol sono stati in questi anni un più che essenziale termometro di ciò che accadeva nell’intreccio banco-industriale italiano, di come suoi protagonisti di prima fila considerassero quella parte di “finanza rossa” che si candidava con sempre maggior forza a crescere, e di come poi quella corda tanto si tese che venne a un certo punto rotta, col colpo di frusta che ha colpito in piena faccia Consorte e Sacchetti.
Imponenti indizi suffragano per Unipol-Bnl la tesi di un regolamento di conti tra poteri, piuttosto che quella di una giustizia provvidenzialmente e finalmente allertatasi a smascherare una banda di malfattori, traditori oltretutto di quel particolare supplemento di fiducia riposto in loro da parte del movimento cooperativo che della mutualità e del rispetto delle regole fa storico vanto. I pm che hanno ricevuto le decine e decine di cartelle inviate da Consorte si sono precipitati a far filtrare alla stampa che le sue dettagliate e puntigliose ricostruzioni – di incontri e informative rese alla maggior parte di coloro che si sono dichiarati e ancora si dichiarano “all’oscuro” di quali fossero i veri intenti e strumenti attuativi dell’opa lanciata da Unipol su Bnl – sarebbero “prive di rilevanza penale”. Di fatto inutili, dunque. E noi certo non possiamo né vogliamo sostituirci ai pm. Ma una cosa è certa. Che si tratti di materiale inviso a “lor signori”, lo prova il fatto che dalle Procure non è stato immediatamente soffiato alla stampa amica, questa volta. Il che ci fa pensare, dunque, che si tratta di materiale molto utile a capire meglio, ciò che davvero è successo.
Per gli inquirenti e la “stampa interessata”, dato il teorema per il quale la scalata ad Antonveneta di Fiorani, quella a Rcs di Ricucci , e quella su Bnl di Unipol siano frutto di un’unica regia, violando il codice penale, il corollario è che Consorte sia il sospetto regista numero uno. Persino più di Fiorani, il disinvolto ex capo della Banca di Lodi. Perché i lodigiani con quei metodi volevano continuare a crescere contro le maggiori banche italiane. Mentre Consorte non solo ha la colpa di aver mirato al primo grande gruppo banco-assicurativo italiano. Il sospetto nel suo caso è più grave. Unipol significa infatti la Lega delle cooperative, 400mila dipendenti, 7,5 milioni di soci (e sono cresciuti anche nel 2005 malgrado tutto, tiè). Legacoop non è solo supermercati e costruzioni, l’ambito al quale Montezemolo e Abete vollero furiosamente e confindustrialmente confinarla nei loro attacchi su Bnl. Per la sua storia e gli equilibri al suo vertice, Legacoop è un’area sensibile che registra da una parte il variare degli equilibri all’interno del suo riferimento storico, i Ds. Dall’altra configura una potente “landa di frontiera”, scrutata con preoccupazione dall’altro potenziale pilastro del futuro Partito Democratico, quella Margherita al cui rafforzamento negli ultimi due anni Francesco Rutelli ha inteso realizzare un allineamento senza precedenti di interessi banco-industriali “amici”.
Non dateci dei maniaci della teoria del complotto. Chi qui scrive, approfittando grato dell’ospitalità di uno dei pochi siti che quando si tratta di vicende banco-industriali non ti chiede prima di chi vorrai parlare bene e di chi male a prescindere dai fatti, non ha la tessera dei Ds né di una sua corrente. E’ un liberista che ama il mercato, dunque in teoria dovrebbe pure guardare con diffidenza a chi predica mutualità e cooperazione. Senonché, proprio chi ama il mercato non può sopportare la vulgata secondo la quale Unipol era nelle mani di una banda di malfattori, quando poi si vede che nessuno sanziona Ifil che ha mentito alla Consob per restare prima azionista della Fiat, o quando nessuno pubblica la sentenza-ordinanza della Corte d’Apello di Milano secondo la quale Telecom pone in essere comportamenti penalmente rilevanti facendo uso improprio e massiccio dei dati riservati dei suoi clienti ed ex clienti, per convincerli a non cambiare gestore. Al liberista impenitente piacerebbe che le regole fossero eguali per tutti. E che le partite politiche restassero partite politiche, non si trasferissero tout court nell’arena finanziaria. Questo sciocco liberista, ha visto che a dar addosso a Unipol per la sua opa erano i vertici banco-industriali che si erano avvicinati alla Margherita di Rutelli. Ha visto che il primo quotidiano d’Italia ha orchestrato per mesi una campagna in cui al segretario ds si chiedeva fuori dai denti di consegnare la testa di D’Alema come vero e colpevole referente di un’operazione che intanto le intercettazioni travolgevano, perché una volta tagliata quella testa a Fassino sarebbero state concesse le attenuanti dell’ingenuità. E sai che bella patente, per un leader di partito. Ha registrato che i veleni messi in giro per mesi su altre presunte intercettazioni dello stesso D’Alema e su quella stessa vicenda, venivano puntualmente rievocati da quegli stessi ambienti ogni qualvolta fosse giudicato utile e necessario. Tanto da riapparire pesantemente in gioco, quando si è trattato di segare le gambe al candidato D’Alema per questa o quella carica istituzionale a cominciare dal Quirinale. Non dite dunque al povero sciocco liberista che è lui a sognare sulla vicenda Bnl tracce di un vero e proprio regolamento di conti politici: perché di segni che avvalorano quella lettura ce n’è un’infinità macroscopica, che può disinvoltamente ignorare solo una stampa tanto militarmente controllata dalla Confindustria attuale e da banchieri atterriti di propri coinvolgimenti nel passato del “famigerato Fazio”.
Poniamoci tutti delle sane domande. Consorte è un giovane banchiere disinvolto cresciuto grazie a Fazio? No. Consorte ha guidato Unipol per 10 anni, l’ha risanata, condotta a produrre utili, fino a renderla il terzo gruppo assicurativo italiano. Con un obiettivo: crescere. E, per anni, Consorte le ha tentate tutte. Cercando senza successo il consenso del vecchio pilastro storico della finanza rossa, il Montepaschi di Siena. E la preda era anche allora Bnl. Oppure mirando a realizzare un ancor maggiore gruppo centroitaliano, che passasse anche per Capitalia: con l’accordo allora di Gilberto Gabrielli, capo degli olandesi di Abn Amro in Italia, e buon amico di Consorte perché entrambi cresciuti negli anni Settanta alla Montedison. Se ne parlò dal ’99 al 2002. Poi le grandi banche italiane che avevano conquistato Mediobanca iniziarono progressivamente a “prendere le misure” ai progetti di crescita di Consorte. Fecero per esempio pesare che Siena era anche nel patto di controllo di Generali, dunque ogni crescita congiunta con un soggetto forte nel ramo assicurativo come Unipol sarebbe stata malvista e non consentita. E il Monte si decise a restar solo: non solo per quello, ma per l’evidenza della frattura rispetto ai Ds nazionali prodottasi pubblicamente da metà degli anni ’90 ad oggi. E, anzi, col tempo, accrescendo sempre di più la pressione avversa a Unipol anche “per linee interne”, attraverso i vertici toscani della cooperazione come Turiddo Campaini e Giovanni Doddoli. Unipol scoprì col tempo che crescere sarebbe stata dura. I suoi tentativi grazie alla “cortina di protezione” del circuito neoMediobanca andarono a vuoto su Meliorbanca, sulla Toro, e sulla grande distribuzione di Esselunga. Per la Winthertur assicurazioni, Consorte dovette pagare carissimo. E da quella vicenda, Consorte trasse una lezione: bisognava provare anche mettendo in conto rotture di equilibrio, senza più timore di dover procedere solo “capello in mano”. Di lì la decisione di rilevare le azioni degli immobiliaristi che in Bnl si opponevano al Bilbao, Generali e Della Valle, e il disegno di conquistare l’istituto romano da solo, tutto per Unipol. Le cooperative toscane non erano d’accordo. Il Montepaschi, contrarissimo. Consorte ha tirato dritto. Non dite allo sciocco liberista che non si è trattato di quelle forze, pronte a scattare all’unisono come una tagliola allorché uscirono le intercettazioni e si mossero le Procure.
Non è un mistero per nessuno, che in grandi quotidiani italiani autorevoli e ispirati “tamburi maggiori” – di quelli insomma che quando prendono a battere i loro colpi evidenziano che si stanno mettendo in moto grandi campagne – si dica apertamente che Consorte è a piede libero per metà perché ha il cancro, e per l’altra metà perché gli stessi pm avrebbero alzato il piede dall’acceleratore, di fronte a due ipotesi diversamente ma egualmente devastanti. L’una secondo la quale Consorte sarebbe un nuovo “Compagno G”, a quel punto ipoteticamente destinato a far saltare definitivamente ciò che tra piazza Santi Apostoli e via Solferino si usa disinvoltamente chiamare la “lobby affaristica dalemiana”. L’altra, secondo la quale la presenza di Unipol nella Hopa di Gnutti sin dai tempi dell’opa Colaninno in Telecom mascherasse da anni provviste finanziarie illecite compiute col pieno assenso di controparti, su mega operazioni come quella attraverso la quale Tronchetti Provera nel 2001 ha assunto il controllo del grande gruppo telefonico italiano senza passare per il mercato.
E’ dunque evidente che il caso Consorte non è affatto equiparabile a Fiorani e Ricucci. Il cappio stretto intorno al suo collo risponde a mani diverse da quelle interessate al puro rispetto del Testo Unico della Finanza, mani interessate a una partita di potere – politico e banco-industriale – condotta senza esclusione di colpi. Per questo noi ci spelliamo le mani davanti alla sua volontà pervicace di battersi. Di far capire meglio noi, che non ci rassegniamo alle apparenze della palingenesi che si vuole compiuta nel 2005. E anche di far capire meglio quella parte di sinistra che forse con un eccesso – talora sospetto – di autolesionismo, ha portato legna alle pire dell’autodafé alimentato da giornali e triangolazioni ostili. So bene che tante persone perbene la pensano diversamente, e ritengono invece un gran bene che il capitolo di “quella” Unipol, guidata dall’ingegnere chimico di Chieti con master in finanza, sia stato chiuso dai pm, perché era diventato ingombrante materia di scandalo e divisione per elettori e dirigenti della sinistra. Attenzione però, per chi a sinistra la pensa così: lasciate che sia proprio un liberista impenitente, a dirvi che chi si fa pecora non potrà mai più mordere. Perché se pensate che un domani qualcuno faccia accomodare là dove si conta davvero una Unipol tornata col cappello in mano, beh allora ripassatevi la storia perché non avete capito niente. Rassegnatevi allora a vederla al “traino” delle coop bianche di Marino e della Compagnia delle Opere: quest’ultima, soprattutto, intrisa di un realismo che quando si combatte sul mercato è sempre meglio anteporre agli idealismi di facciata.