That’s hell, folks

The rain’s falling / Flashes of light on your bloody face, this face you hated / Even the darkest sky seems to cry / Tonight… you died (…) Shoot! / Pull the trigger! / Free yourself! / Eat the gun / Pull the trigger!”
Un simpatico invito al suicidio, sostenuto con il giusto tono di (rauca) voce e accompagnato dal debito martellamento sonoro. Tirare il grilletto, liberarsi. Ecco cosa succede quando un gruppo di raider marsigliesi scorazza per i gironi dell’Inferno metallico. Non è solo per la recente immersione dei guru Sepoltura nella Divina Commedia che l’Inferno gode di popolarità presso le generazioni contaminate dal verbo metal; e non è certamente solo perché Marsiglia è una città bella e dannata se, nel 1997, un allora ventenne di belle e dannate speranze denominato Shawter (voce, sintetizzatori, campionature) decide di dar vita a un gruppo musicale che “cerchi di trasformare la violenza in energia ed emozione”. La prima formazione a cinque, nonostante un paio di demo (“Time To Go”, 1998) e una chance come “apertura” per i Rammstein, non sembra convincere il leader che nel 2001 rivoluziona la linea: arrivano Franky (percussioni), Werther (basso), Izakar (chitarre) e il suono raggiunge la desiderata temperatura di fusione.
“Release The Fury” (’01) è un assaggio di sei brani che lasciano il segno come altrettante frustate a schiena nuda: il coro unanime della critica europea accompagna il gruppo nella marcia verso il primo full-lenght, “Dagoba”, rilasciato due anni dopo. Con la reprise di “Something Stronger” (già su “Release”) e alcuni titoli-manifesto come “From Torture To Enslavement”, “The Caos We’re Involved In” e “Gods Forgot Me” ripetono il colpo, grazie anche a una produzione più curata (Dave Chang, già con Stampin’ Ground, Linea 77 e Orange Goblin). Manifestazioni di orgoglio (della critica) nazionale e continentale consolidano la fama dei Dagoba e aprono l’attesa per il follow-up: “What Hell Is About” (’06) non delude, confermando talento ed energia (soprattutto) del quartetto francese, impegnato a proporre una personale miscela di death, grind e black con sfumature elettro-industriali; tra Pantera, Fear Factory, Metallica e reminiscenze del perduto Desmond Horn (“King Of Kings”, 1990), più tentazioni arabeggianti e persistente retrogusto black. Non a caso, il nuovo lavoro viene realizzato in Danimarca con il produttore Tue Madsen e vede la partecipazione in alcuni brani del bassista e voce “in chiaro” dei Dimmu Borgir, Simon “Vortex” Hestnaes. Con l’ugola di Shawter e le impressionanti percussioni di Franky in primo piano, sfilano dodici tracce spillate come sudore da muscoli e nervi: “Die Tomorrow”, “The Man You’re Not”, “It’s All About Time” e la crudele “The White Guy” (da cui è tratta la citazione iniziale) sono i proiettili migliori in una raffica supersonica dove la brutalità non concede mai tregua e, ciononostante, umori sotterranei di sintetizzatori ed arpeggi di chitarre conferiscono spessore al suono senza rimanerne schiacciati. Se un difetto si può rimproverare ai marsigliesi – a parte l’insistenza su testi maniaco/depressivi: può sempre capitare che qualcuno li ascolti… – a questo punto è proprio la perfetta combinazione degli ingredienti. Nulla, qui, appare casuale. Un sospetto di cerebralità, di costruzione matematica s’affaccia in diversi passaggi, innescando il sospetto che la furia sia sì rilasciata, ma corra in recinti robusti. La qual cosa, trattando di metallo, è equiparabile all’accontentarsi dei preliminari. C’est ça.