Dopo la conferenza di Roma

Dopo l’atroce strage di Qana, dove sono morti 54 civili tra cui decine di bambini, è più difficile, almeno emotivamente, discutere della conferenza di Roma e argomentare del suo sostanziale successo. Anche perché il corso degli avvenimenti sul terreno potrebbe prendere la strada che già prese nel 1996 dopo un’analoga e terribile strage durante l’operazione Grapes of Wrath condotta dall’esercito israeliano contro Hizballah, e finita con il crollo proprio a Qana di un palazzo sede degli osservatori Onu dove trovavano rifugio centinaia di civili in fuga dalle operazioni militari, e dove trovarono la morte più di cento di loro. In quel caso la strage causò l’arresto dell’operazione in Libano e la sconfitta del candidato premier Peres alle elezioni politiche israeliane indette dopo l’uccisione di Rabin nell’autunno del 1995, perché Peres perse il voto degli araboisraeliani, che si astennero in massa favorendo così la vittoria di Netanyahu. Oggi esiti imprevedibili potrebbero essere sepolti sotto quelle macerie. Ma se tali esiti non porteranno Hizballah e Israele ad aprire una escalation sinora evitata da ambedue le parti, la conferenza di Roma potrebbe riprendere a dispiegare i suoi effetti positivi a lento rilascio.
I frutti migliori della conferenza di Roma non consistono infatti tanto nei progressi compiuti sulla crisi libanese – per valutare i quali occorrerà ovviamente attenderne gli sviluppi – quanto nell’indicazione di un nuovo modo di guardare al Medio Oriente.
A partire dall’oggetto del vertice: non è stata una conferenza sull’Iran, ma sul Libano. Invece di affrontare la crisi libanese come una variante più o meno significativa all’interno di un quadro generale (ideologicamente) predefinito, la si è dunque affrontata come vicenda specifica che concorre ad un quadro regionale, da comporre intrecciando analisi specifiche. Facendo così correttamente derivare tale quadro – che certo esiste – dall’azione di una forte interdipendenza regionale e non da uno schema geopolitico fisso, immutabile nella sua disperazione. Del resto, per ridurre il potere di Hizballah e di Hamas non basterà fermare l’assistenza da Siria e Iran, così come la fine degli aiuti agli estremisti palestinesi da parte di Saddam Hussein nel 2003 non ha significato infatti una riduzione dell’attività contro Israele.
La conferenza ha riportato però anche alcuni visibili risultati: la decisione di creare un corridoio umanitario, l’istituzione di una “robusta” forza internazionale di interposizione (cioè di peace enforcing e non di peace keeping), l’impegnativa dichiarazione di lavorare “immediatamente” per un cessate il fuoco. Vuoti proclami? Tutt’altro. Non a caso non si è ancora verificata un’escalation militare da parte del più forte, abituale in situazioni simili, poiché la stessa strage di Qana sembra essere dai primi dispacci un tragico errore dovuto ad una trappola di Hizballah in cui pare caduta l’intelligence israeliana: il Consiglio di Difesa di Israele il giorno dopo la conferenza fa ha infatti deciso di “non autorizzare una vasta offensiva in Libano”, di “non aprire un fronte con la Siria”, di “non ampliare la mobilitazione della riserva”. E non a caso lo stesso giorno lo sciita Nabil Berri, Presidente del Parlamento, ha organizzato riunioni tra Hizballah e le altre forze del governo di coalizione – dove Hizballah ha due ministri – per forgiare una piattaforma politica che tenga conto dell’incontro di Roma. A conclusione, il Presidente palestinese Abu Mazen ha voluto poi fare tappa egli stesso a Roma, per incontrare i vertici del paese che aveva organizzato la conferenza. Ed effetti politici seppur indiretti si sono visti, io credo, anche nella politica italiana: l’approvazione del rifinanziamento della missione in Afghanistan e la sordina al dissenso personale di alcuni senatori dell’Unione nel voto di giovedì è stata agevolata dalla conferenza di Roma, che ha proposto una terza via tra unilateralismo Usa e impotenza europea imperniata su un contingente internazionale “robusto” del tutto simile alla missione Isaf. Contingente che proposto in Libano per interporsi tra Israele e Hizballah legittima indirettamente anche l’altro, facendo apparire più evidente la pretestuosità dell’opposizione della sinistra radicale all’intervento in Afghanistan poiché dipendente dal contesto e non – come invece dichiarato – dal merito dello strumento.
In questo modo nuovo si supera anche la spaccatura fra Europa e Usa sull’intervento in Iraq, che altrimenti tenderebbe a riproporsi continuamente. Senza dimenticare che il Medio Oriente vive un cambiamento epocale: esattamente cinquanta anni dopo la guerra di Suez, che segnò la fine dell’egemonia imperiale francese e britannica e la nascita della potenza militare israeliana, un’altra guerra fallita (quella irachena) segna la diminuzione della potenza degli Usa e l’ascesa di una nuova potenza regionale, l’Iran.
Il Medio Oriente si sta infatti riallineando su nuove linee di faglia: prima diviso tra arabi e non arabi, dopo la carta sciita giocata dagli Usa in Iraq tende invece a dividersi tra sciiti e non sciiti. Dove la ribellione sunnita in Iraq è il classico tassello del puzzle che nel trambusto si perde sotto il tavolo da gioco impedendone così la ricomposizione: perché tale insurrezione indebolisce gli Usa e fa temere agli stati arabi sunniti moderati di trovarsi privi di appoggi in balìa di uno sciismo politico radicale. Motivo per cui per la prima volta, al summit della Lega Araba del 15 luglio, l’Arabia Saudita e l’Egitto – entrambi sunniti – hanno sostenuto la risoluzione 1559 del Consiglio di Sicurezza che chiede il disarmo dello sciita Hizballah.
L’anello di congiunzione che ha reso possibile questo passaggio dalla vecchia e fallimentare concezione “monolitica delle minacce” – per riprendere una efficace definizione di Barbara Spinelli – che poi ideologicamente conteneva in sé lo sbocco dell’unilateralismo, ad una diversa concezione realista dei rischi e delle forze in campo – che punta invece verso il multilateralismo – è stata senza dubbio l’intesa politica tra Condoleezza Rice e Massimo D’Alema. Si tratta di un fatto di primaria importanza, perché ha permesso di parlare contemporaneamente e con una sola autorevole voce a Israele, agli arabi, all’Iran, e anche alle opinioni pubbliche europee e statunitensi. Un fatto costruito sulla vocazione al realismo di queste due figure. Ed anche una sorta di risarcimento per Colin Powell, sconfitto per una avversa temperie ideologica.
In tale intesa ognuno fa la sua parte. D’Alema contribuisce a portare l’Europa su una linea sostanzialmente diversa da quella franco-tedesca del 2003 – quando di fronte all’intervento angloamericano in Iraq si rispose con la rinazionalizzazione dell’interesse europeo, spaccando l’Europa su assetti sorpassati – proponendo invece un interventismo democratico multilaterale in luogo dell’unilateralismo Usa. La conferenza di Roma nasce infatti dalla rivitalizzazione creativa del Lebanon Core Group, che esisteva già dal 2005 e al quale sono stati aggiunti Germania, Spagna, Canada, Turchia, Cipro e Grecia. E il gruppo si riunirà di nuovo a settembre a New York, in occasione dell’Assemblea Generale. La Rice, a sua volta, accetta di negoziare preventivamente con i più importanti stati europei, dunque con l’Europa, visto che alla conferenza erano presenti anche le istituzioni europee. E il negoziato preventivo è l’opposto dell’unilateralismo.
Sono frutti ancora aspri ma che possono maturare, sempre che non cadano acerbi sul terreno perché l’albero viene colpito da una bomba. Solo così infatti si potrà attingere alle risorse necessarie per stabilizzare la regione e battere il terrorismo globale. Perché tali risorse sono nascoste nelle pieghe della politica e in quelle dell’originale e peculiare società civile araba, facendola uscire dall’ “infelicità” descritta in un bel libro dall’intellettuale libanese Samir Kassir, trucidato l’anno scorso da una bomba. Solo così l’Italia potrà svolgere appieno un ruolo virtuoso all’interno dell’Europa, e l’Europa insieme agli Stati Uniti, nel riportare la crisi politica che scuote il Medio Oriente entro una cornice politica. Perché è la politica a essere la continuazione della guerra con altri mezzi (cioè la sua sostituzione, e si spera il suo definitivo accantonamento), non il contrario. La crisi mediorientale insegna.