cosa dicevamo

L’eredità di Ruini

Il convegno della Chiesa italiana di Verona ha mantenuto almeno due previsioni della vigilia. Da un lato, la sensazione che l’occasione sarebbe stata colta dall’ala più critica della leadership di Camillo Ruini per lanciare un primo attacco, il primo tentativo di voltare pagina: così è stato con il discorso di apertura del cardinale Tettamanzi. Dall’altro, la certezza che un ventennio così pesante come quello dominato dal cardinale di Sassuolo non poteva essere archiviato con un colpo di mano, con una settimana di lavoro e neppure con la semplice sostituzione alla guida dell’episcopato. Ruini è in scadenza, la transizione è cominciata, ma a dettarne i tempi e i modi sarà sempre lui, il presidente della Cei: più che mai in sintonia con papa Ratzinger, al punto di permettersi una ricca prolusione finale al convegno di Verona dopo il lunghissimo discorso di Benedetto XVI.
Sulle parole del papa è già stato scritto parecchio. E una frase di Ruini sull’unità dei cattolici in politica sui valori al di là degli schieramenti (“E’ diffusa l’impressione che il discernimento comunitario sia mancato in larga misura nel decennio scorso…”) ha scatenato molte polemiche: è un’autocritica? Oppure, come sembra più probabile, si tratta un appello ai cattolici entrati in politica e in parlamento a restare uniti fuori dagli schieramenti, il che vorrebbe dire per esempio che parlamentari di destra e di sinistra dovrebbero presentarsi con posizioni comuni ogni volta che si discute dei temi “eticamente sensibili” (ridotti a tre: vita, famiglia, scuola)?
Meno si è riflettuto, a Verona e dintorni, sul ruolo che la Chiesa italiana ha assunto in questi dieci anni nella crisi isituzionale e politica del Paese. Che parte si è ritagliata la leadership ecclesiastica mentre crollavano i vecchi partiti e la politica entrava in coma profondo, abbandonata a se stessa come terra di invasione per eserciti stranieri (poteri economici e editoriali, lobby, corporazioni, mandarinati occulti e non)? Non certo un ruolo di supplenza, come successe ad esempio nel passaggio dal fascismo alla Repubblica, quando la Chiesa seppe gestire la transizione e offrire una nuova classe dirigente pronta per il ricambio, con gli uomini della Democrazia cristiana. Non senza affrontare un duro scontro al suo interno, al vertice delle gerarchie vaticane: tra chi, come papa Pio XII e monsignor Tardini, guardava con diffidenza il nuovo partito e puntava sui comitati civici di Gedda e sul blocco d’ordine con le destre e chi, come monsignor Montini, aveva da tempo allevato una giovane generazione alle responsabilità di governo (gli uomini della Fuci, i Moro, gli Andreotti, i Taviani) e voleva buttarli in campo senza più mediazioni ecclesiastiche. Con una formazione alla politica: gli strumenti, le parole, i temi, gli scontri e gli incontri, le mediazioni della politica.
Vinse Montini e cominciò la storia che sappiamo. Niente di tutto questo è successo nei travagliati anni Novanta e dopo. La Chiesa italiana ha accettato il bipolarismo purché fosse eternamente in bilico, a rischio, debole. Ha dunque partecipato ai due vizi che hanno caratterizzato la politica in questi quindici anni. Ha scatenato al suo interno dinamiche del tutto identiche a quelle che andavano per la maggiore nel sistema politico fino a diventare luoghi comuni del dibattito.
La dinamica populista, prima di tutto. Nessun plebiscitarismo, nessun cedimento alla dittatura delle maggioranze o al berlusconismo, ovviamente, in un’istituzione dove non si vota. Ma il populismo ecclesiastico è ben visibile quando si smantellano le associazioni storiche, il tessuto che da un secolo rappresenta il volto più originale del cattolicesimo italiano, per favorire i movimenti carismatici dove non esistono mediazioni, il rapporto è unicamente tra base e vertice, tra fedeli e militanti e leader carismatici. In questo contesto, il convegno di Verona poteva rappresentare una pietra di inciampo: ha ragione chi ha scritto che i 2700 delegati erano in gran parte ancora figli della stagione di Paolo VI, di un cattolicesimo montiniano, selezionati tra le punte di eccellenza di ogni diocesi e che dunque erano i più refrattari a cogliere l’appello di papa Ratzinger. E’ vero: il popolo di Benedetto, più che del cardinale Ruini, non era a Verona. Anzi, nel convegno si sono sentiti gli echi della tradizione di riflessione politica della Fuci, ad esempio nella relazione di Luca Diotallevi nel gruppo di lavoro sulla cittadinanza. Ma ai vertici della Chiesa importano poco assemblee come quelle di Verona. Il popolo di Dio cui il papa tedesco fa appello si trova nelle parrocchie, nei movimenti, tra gli ascoltatori di Radio Maria, tra i devoti di padre Pio, tra i pellegrini mariani del circuito Lourdes-Fatima-Medjugorje. I più scaltri, come Francesco Rutelli, lo hanno già ribattezzato “cattolicesimo di popolo”, in contrapposizione ai cattolici democratici, certo più illuminati, ma minoritari nei numeri e in difficoltà sulle parole d’ordine. E’ un bel pezzo d’Italia con cui nessuno parla: la stessa Italia profonda che vota Lega o Berlusconi, che brontola nelle regioni del Nord Est o nel meridione, l’Italia che sfugge ai sondaggi e poi pesa nelle urne. Un’Italia che la Chiesa non vuole più educare o promuovere, vuole solo mobilitare.
Il secondo vizio è la contrapposizione tra la società civile (buona) e la società politica (cattiva). Niente a che vedere, però, con la sacrosanta denuncia dei vescovi italiani del 1991 nel documento “Educare alla legalità”, in cui i pastori della Chiesa mettevano sotto accusa i livelli di corruzione ormai intollerabili ai tempi del partito cattolico al governo e invocavano il risveglio delle coscienze. La nuova società civile, esaltata dal cardinale Ruini e dai suoi ideologi, ha un bersaglio diverso, più sottile: impedire il ritorno della mediazione politica. Indicare dall’alto le leadership affidabili, ieri il governatore di Banca d’Italia Antonio Fazio, oggi gli uomini e le donne del comitato referendario Scienza e Vita presenti in parlamento, domani chissà, magari qualche tecnocrate dal profilo curiale o gesuitico. Scegliere classi dirigenti che non passano dalla selezione naturale, il benedetto circuito consenso-responsabilità, candidature e voto, ma che piovono dal cielo o dalle stanze della Conferenza episcopale, saltando a piè pari procedure più democratiche di elezione. A parole, anche nel documento preparatorio di Verona, si invoca l’arrivo di cristiani “adulti”. Salvo poi attaccarli o difenderli blandamente dai fischi, com’è successo a Romano Prodi.
In questo la Chiesa italiana incassa una fila di politici a caccia di benedizioni, come i Re Magi, in processione. Ma manca un’occasione enorme, storica: mettersi al servizio del Paese come agenzia di educazione alla democrazia. E invece si comporta come tutte le altre lobby che hanno imperversato in questi anni: trasforma i politici in burattini, semplici portavoce di decisioni prese altrove, crea e poi distrugge a suo piacimento figure presentate come campioni del cattolicesimo e poi prudentemente fatte sparire. Gioca insomma contro la politica intesa come terreno privilegiato per affrontare e risolvere i problemi. E gioca dalla stessa parte di altri poteri, più mondani, che in questi anni si sono posti lo stesso obiettivo. Commissariare la politica, e dunque la democrazia.
I più colpiti da questa linea sono in primo luogo gli eredi del cattolicesimo democratico e liberale, gli eredi di De Gasperi e di Dossetti insieme, che questa partita, la partita della politica e della democrazia, hanno sempre cercato di giocarla in prima persona. Sono rimasti senza parole, in questo contesto. Appaiono sempre più esangui, sfibrati. Né a restituire ruolo e parole contribuiscono le nostalgie del passato o i ritorni in chiave puramente politicista, da corrente di partito, come hanno fatto di recente i popolari a Chianciano. C’è da riconquistare una presenza culturale che ora non esiste. E’ su quella presenza che la Chiesa di Ratzinger e di Ruini ha costruito la sua vittoria. C’è da restituire vigore alle parole, accettare la sfida, non rifugiarsi nelle comode nicchie del passato, come le chiamava Dossetti, sperando che la nottata passi. Perché altrimenti toccherà dare ragione ad Andrea Riccardi che al convegno dei teo-dem rutelliani ha liquidato la storia del cattolicesimo democratico come una reliquia del passato. E perfino a Ernesto Galli della Loggia che sul Corriere ha impietosamente sottolineato che papa Ratzinger “poteva, che so, insistere sul tema della pace, parlare degli immigrati, della condizione degli anziani, del ruolo delle donne e del laicato nella Chiesa. Non lo ha fatto”. Vero, anche se al professor Galli della Loggia che se ne rallegra poi viene da chiedere che cosa resta dell’essenza del cristianesimo, della rivoluzione cristiana senza quelle parole (pace, ascolto, accoglienza) che lui disprezza tanto. La notte è notte e nella notte bisogna organizzare una nuova narrazione, per arrivare anche a una nuova politica.
Infine, questa Chiesa interroga anche la sinistra. Non basta dichiarare in tv una lontana fede cattolica, come ha fatto Piero Fassino un anno fa, per tornare a dialogare con il mondo cattolico. Sul piano culturale occorre superare un individualismo che rende totem intoccabili i diritti civili, quasi che fosse l’unica identità possibile per la sinistra del XXI secolo, e butta a mare i diritti sociali, quasi che fossero un’anticaglia da vendere al mercatino. E sul piano politico? Combattere per il primato della politica, da reinventare da zero, significa anche aiutare la Chiesa a un nuovo confronto con la democrazia italiana. Non spetta certo al Partito democratico confondere sacro e profano. Però.