Il simbolo della galera

Bandiera nera la vogliamo? No! / Bandiera nera la vogliamo? No! / Perché nel simbolo della galera / bandiera nera la vogliamo? No!”. E’ un canto che si sente sempre meno, purtroppo, nelle manifestazioni della sinistra. D’altra parte sarebbe curioso risentirlo proprio in questi giorni, mentre tutti i giornali parlano dello sconcerto e della rabbia diffusa tra gli elettori dell’Unione per l’indulto varato dal parlamento, con il convinto sostegno del governo. Non è un problema di comunicazione, ovviamente.
E’ evidente che è cambiato qualcosa nel profondo. Nel profondo del cuore e della testa del cosiddetto “popolo della sinistra”, prima che nel cuore o nella testa dei suoi dirigenti, da troppo tempo abituati a seguirlo più che a guidarlo, quel popolo. Per poi restare sconcertati entrambi – popolo e dirigenti – quando questi ultimi si permettono di scartare all’improvviso, scoprendo che nessuno li segue. E’ esattamente quello che è accaduto sull’indulto. Onore dunque ai partiti, al governo, alla maggioranza e a tutti i parlamentari che hanno avuto il coraggio di varare un provvedimento necessario e urgente, per evitare che le carceri esplodessero.
Ma quale reazione si poteva attendere dai loro elettori, a cominciare da quelli dei Ds, abituati a leggere tutti i giorni sull’Unità gli articoli di Marco Travaglio. E qui stiamo chiaramente usando una sineddoche, una parte per il tutto. Basta fare un sommario elenco di tutti i più diffusi quotidiani e riviste che siamo abituati a considerare di sinistra: Repubblica, Espresso, Diario, Micromega. Potremmo continuare a lungo, ma la spiegazione di tutto non si trova semplicemente nella triste condizione dei nostri mezzi di informazione e delle nostre elite intellettuali, con i loro infiniti giochi di relazione, le loro più o meno segrete obbedienze e i loro più o meno reverenziali timori. La lotta per l’egemonia non è un pranzo di gala. E su questo terreno, quello della cultura politica, in particolare nel campo della giustizia e dell’etica, la sinistra ha disarmato da tempo.
Non spiega tutto nemmeno la tesi che indica in Berlinguer l’origine di ogni male. Fallita la strategia del compromesso storico ed entrata in crisi la solidarietà nazionale, la scelta di caratterizzare e quasi rivendicare l’isolamento politico in cui il Pci era finito, sollevando la questione morale e facendone una bandiera, è probabilmente all’origine di tante successive degenerazioni. Ma se questa è la responsabilità di Berlinguer, ben maggiore allora è la responsabilità di coloro che sono venuti dopo di lui, che tali degenerazioni hanno visto dispiegarsi sotto i propri occhi, quando non le hanno direttamente alimentate. Molto di questa mutazione genetica – perché tale è stata, e non meno grave di quella craxista – si è sviluppata negli anni Ottanta. E in forma particolarmente violenta e subitanea, da Berlinguer a Occhetto. Ma nemmeno questo spiega tutto.
La cesura è negli anni Novanta. Il punto di non ritorno viene passato allora. E finché non si troverà il coraggio di raccontare le cose come stanno su quegli anni e su quello che hanno prodotto – da Tangentopoli in poi – non se ne uscirà mai.
La stucchevole polemica cominciata l’anno scorso contro Prodi e Berlusconi, il vecchio che è avanzato, partiva da un dato di fatto indiscutibile: non si è mai visto nella storia un paese in cui i contendenti alla guida del governo siano gli stessi di dieci anni prima, in cui una simile sfida si ripeta identica a se stessa a distanza di due legislature. Peccato che l’argomento fosse utilizzato dai sostenitori di Fini e Veltroni, vale a dire dei due più autentici frutti di quella stagione incompiuta e interminabile. Non saranno certo loro, che a quella stagione devono tutto, i leader capaci di chiuderla. Al contrario, le loro maggiori chance stanno nel fatto che quella stagione non riesca a chiuderla nessuno. Nel perdurare dell’instabilità di governo e della crisi dei partiti, nella caduta del governo di centrosinistra e nel definitivo sfaldamento della coalizione (e della leadership) berlusconiana, nel fallimento del Partito democratico e nella crisi del centrodestra.
Il problema è che la storia degli anni Novanta andrebbe raccontata innanzi tutto dai giornalisti, dagli intellettuali e dagli storici. Ma non lo farà nessuno di loro, per la stessa ragione per cui non lo faranno i politici: perché a raccontarla sul serio, con tutti i suoi personaggi – nella politica e nella giustizia, nell’economia e nell’informazione – alla fine si salverebbero in pochi. Ammesso e non concesso che se ne salverebbe qualcuno.