Il talento percepito degli All Blacks

Mickey Skinner, terza linea inglese degli anni Ottanta e Novanta, sosteneva che il mondo si divide in fighetti e veri uomini. I fighetti – pretty boys – sono gli elegantoni delle linee arretrate, quelli che segnano i punti e si prendono la gloria e le copertine dei giornali dopo che i veri uomini, gli avanti, quelli che giocano in mischia, hanno fatto il lavoro sporco. Per citare una metafora abusata, i fighetti sono quelli che suonano il pianoforte, i veri uomini quelli che lo spostano.
Se Skinner ha visto Inghilterra-Nuova Zelanda di ieri è probabile che ora abbia un esaurimento nervoso. Gli All Blacks attuali sono così belli e perfetti che sembrano appena usciti da un casting. Richie McCaw, il capitano, e Daniel Carter, l’apertura, somigliano a dei fotomodelli. I loro omologhi inglesi sono Martin Corry, che ha tante cuciture in faccia da sembrare un mocassino, e Charles Hodgson, l’aspetto, il carisma e l’eleganza di un impiegato del catasto. Un capoufficio in sede vacante, in attesa da tre anni del ritorno del titolare, il principesco Wilkinson, perennemente infortunato. Il cast degli All Blacks si completa con i dreadlock bicolori di Ma’a Nonu, direttamente dal set del Re scorpione, con l’esotico triangolo arretrato formato da Joe Rokocoko, Rico Gear e Mils Muliania – chiaramente dei nomi d’arte – e con una buona selezione di caratteristi. Non è che gli inglesi non siano atletici, è che danno l’idea di essere umani, gente con una vita, una famiglia, degli amici. Gli All Blacks sembrano esistere solo all’interno del campo da gioco. Giusto Aaron Mauger ha l’aria più da boscaiolo che da rugbista, ma è un illusione momentanea e pericolosa.
In campo la partita prende subito una piega favorevole per i neozelandesi, grazie anche a qualche favore arbitrale – una meta inspiegabilmente negata ai padroni di casa – che i divi vestiti di nero accettano con noncuranza. E’un confronto tra realtà e rappresentazione, in cui è la rappresentazione che ha regolarmente la meglio. Le due squadre fanno cose simili, avanzano, placcano, puliscono i raggruppamenti, ma gli inglesi danno l’impressione di doverci mettere impegno e fatica, gli All Blacks mai. Rokocoko intercetta un pallone e si tuffa aggraziato in meta dopo una corsa di sessanta metri. Anche Perry farà la stessa cosa per gli inglesi, nel secondo tempo. Ma è tarchiato, con una incipiente calvizie e corre come Di Livio. In più la sua maglietta è sporca di terra, mentre la saggia eleganza nera degli avversari è tale e quale ad inizio partita.
Se esistesse la funzione del talento percepito, gli All Blacks sarebbero un asintoto verticale, un punto in cui la funzione tende all’infinito. Col passare dei minuti non si può fare a meno di pensare che il divario nel punteggio – reale, dannatamente reale – sia effettivamente giustificato da ciò che appare, una passeggiata nella gloria.
Daniel Carter dopo un’ora di gioco non è nemmeno sudato mentre piazza l’ennesimo calcio di punizione. Ne ha sbagliato uno solo, alla fine del primo tempo, e ha accolto l’errore con infastidito disappunto. Poco dopo, palla in mano, fa uno scarto e si infila in un buco della difesa, accelera senza sforzo, impedendo a chiunque di commettere l’oltraggio estetico di un placcaggio, e appoggia delicatamente la palla in meta. Non un ansito, non una goccia di sudore, non un segno di fatica sul viso, mentre va a trasformare la sua stessa realizzazione.
La rappresentazione ha definitivamente vinto e prende il largo, in campo e nella testa degli spettatori. Forse perfino in quella degli avversari, che provano uno dei loro grandi classici, la meta in spinta con tutta la mischia, ma vengono respinti. Finisce 41 a 20 per i divi in nero. Carter, 26 punti, ha detto che “c’è spazio per miglioramenti”. Tipo, non so, un diverso taglio di capelli.