Solitude Aeturnus

Risvegliandoci dagli incubi/ In una vita ripetitiva/ Continuiamo/ Dritti verso la fine”. Non suonerebbe bene al Grand Ole Opry di Nashville. Non s’accompagna con la classica bistecca alta cinque dita, induce di più il desiderio di una pinta di birra. Non è tradizionale anche se viene dal profondo sud. E’ doom-metal, la costola più oscura della maledizione Sabbath, ma arriva, in questo caso, dal Texas.
Per alcuni osservatori nostrani secondo i quali il Texas è solo George W. Bush, Chuck “Walker Texas Ranger” Norris e pessima musica country, i Solitude Aeturnus non dovrebbero esistere; viceversa, questa band che coniuga l’estetica fatalista del doom con la crepuscolare malinconia del gotico rappresenta il punto d’arrivo dell’epopea western. Occupate infatti le vaste praterie e interrotti gli orizzonti dal trionfo del vetro e dell’acciaio, cosa resta ai pronipoti dei Cavalieri dalle Lunghe Ombre, revival hollywoodiani a parte?
Gli anni Settanta hanno sostituito le Harley ai Mustang (intesi come cavalli), la birra all’Acqua di Fuoco e le Fender alle Smith&Wesson (una sei-corde è sempre meglio di una sei-colpi); i decenni successivi hanno creato l’urgenza di qualcosa che cavalchi le strade polverose del deserto attraverso le polveri sottili dell’aria; che contempli un tramonto infiammato da un incendio nei quartieri poveri e prepari la battaglia annusando quell’odore inesorabile di sconfitta, comunque vada.
E’ presto per dire se la Texas Music Hall of Fame vorrà annoverare, un giorno, anche i Solitude Aeturnus in una linea temporale che parte da Scott Joplin e Blind Lemon Jefferson, passa per Red Garland e Ornette Coleman, prosegue con Willie Nelson, Kris Kristofferson e Waylon Jennings, e arriva agli irrequieti Buddy Holly, Janis Joplin, Roki Erikson, Stevie Ray Vaughan. Meno innovativi nel loro genere di quanto non siano alcuni tra i sunnominati ma parimenti “fuori schema”, i S.A. si collocano alla fine della lista raccogliendo il meglio della tradizione per seguire la pista della dannazione senza fine.
Il chitarrista John Perez, motore e faro dei S.A., forma la band nell’87: proveniente dai Rotting Corpse, insegue un sound che parta dai Sabbath più tenebrosi e dall’ondata di gruppi doom anni Ottanta come Witchfinder General, Black Hole, St.Vitus e Obsessed. In vent’anni di carriera, attraverso un continuo turnover di musicisti, produttori e case discografiche, i S.A. incidono sei album incluso l’ultimo “Alone” (novembre ’06). L’esordio è nell’88 con l’ep “Justice For All” (di qualche mese in anticipo sui Metallica); seguono “Beyond The Crimson Horizon” (’92), “Through The Darkest Hour” (’95), “Downfall” (’96) e gli ottimi “Adagio” (’99) e “Alone”. Quest’ultimo, registrato con Sterling Winfield (Pantera) e J.T.Longoria (King Diamond) in consolle, presenta 9 cavalcate di stretta osservanza doom sulla distanza di oltre un’ora (con lo stesso materiale altri pubblicherebbero tre cd). “Scent Of Death”, “Burning” e “Essence Of Black” si elevano di molto al di sopra della media. Di buon livello “Waiting For The Light” (il cui riff ricorda “Living Loving Maid’” dei Led Zep), “Sightless”, “Upon Within” e “Is There”. Di routine “Blessed Be The Dead” e “Tomorrow’s Dead”. Perez guida la nuova formazione (Robert Lowe alla voce, Steve Moseley seconda chitarra, James Martin al basso e Steve Nichols alla batteria) innestando influenze death e arpeggi arabeggianti (tra Schuldiner e Blackmore) sul canone doom; il risultato è un sound pulsante e rallentato che comunica l’imminenza eterna di una minaccia atroce (nella migliore tradizione lovecraftiana). Band che vanta un ristretto numero di adepti anche in Italia (nel sito ufficiale i ringraziamenti per il mini-tour della scorsa primavera), non raggiungerà la Top Ten neppure questa volta ma si conferma solida realtà del genere, con arrangiamenti non privi di originalità e testi (quello riportato all’inizio è tratto da “Lament” in “Adagio”) non privi di ambizione stilistica seppur canonici.