Draghi, Leone Alato e fame bresciana

Il risiko italiano non ha deluso le aspettative di chi ha puntato le sue carte sul rinnovo del patto di Mediobanca a marzo, e sull’assemblea di Generali ad aprile. La maxi espansione della galassia bresciana che si raccoglie intorno alla callida guida del professor Giovanni Bazoli ha suscitato reazioni, dopo mesi e mesi di apparente acquiescenza generale, e ora che gli eserciti si mettono in campo per sbarrarle la strada si tratta di capire se siamo in procinto di mere manovre d’interdizione, come avveniva nelle guerre del Settecento europeo – in cui raramente i contendenti non riconoscevano al generale più abile l’aver saputo guadagnare la posizione migliore e le battaglie si riducevano a poco più che scaramucce dopo una campagna di schieramenti e controschieramenti – o se al contrario su qualcuno dei fronti aperti vi sarà battaglia vera. Ma si tratta di asset per un valore intorno ai 100 miliardi di euro. Se sommate Generali, Capitalia, Mediobanca, Rcs, il Grand-Hotel che sta nascendo in queste ore dalla fusione di Hopa-Mittel e le relative quote in società controllate a cascata, nonché le partecipazioni che ciascuna di queste holding detiene siamo a ben oltre un settimo dell’intera Borsa italiana. E se poi ci si aggiunge la malconcia Telecom Italia di Tronchetti Provera si sfondano i 150 miliardi di euro, e si arriva a oltre il 20% dei valori quotati in Italia. Di fronte a tale aggregato di forza, potere e influenza, solo un panorama editoriale gravato da conflitto d’interesse epidemico – come direbbe il professor Guido Rossi – si può muovere in punta di piedi col terrore di arrecare disturbo. Ed è esattamente ciò che sta avvenendo, infatti. Scusate se faccio un forse pretestuoso esempio personale: ma se siamo al punto che su una testata come Libero ci deve pensare un Oscar Giannino – l’ultimo che per quanto scrive da anni sugli spioni in Telecom Italia può contare fonti autorevoli nell’azienda – a essere il primo a rivelare sabato scorso che Tronchetti Provera ha in mano una ricca proposta da parte degli spagnoli di telefonica, per più di 3 euro ad azione e per almeno il 30% della sua quota in Olimpia – allora siamo veramente messi malissimo, dal punto di vista della funzione di “cani da guardia” che dovrebbero giocare i grandi giornali sedicenti “indipendenti”. Ed è anche per questo, che la politica poi mostra di capirci ancor meno di quanto abbia voglia, coraggio – e libertà, non dimentichiamocelo – di intuire, su quale maremoto sia in realtà in corso davvero, sotto la superficie apparentemente appena increspata dell’intreccio banco-industriale italiano.
Ci si limita qui, per conseguenza, ad inanellare una serie di eventi inopinati, che sono o appaiono tutti come anelli di una sola catena. Catena messa in moto dall’indigestione praticata e ulteriormente minacciata da San-Intesa, e che ha visto reagire una serie di attori di prim’ordine, sostanzialmente seguendo il vecchio detto per il quale uno stomaco vuoto non è mai un buon consigliere politico. Il primo a parlare è stato addirittura il governatore Mario Draghi al Forex di Torino. Quando ha criticato pesantemente la dual governance che da San-Intesa in poi ha preso a fiorire improvvisamente nel giardinetto bancario, tutti i manager del credito hanno capito che l’altolà era tardivo – Bankitalia poteva pur dirlo lo scorso agosto, quando diede il via libera a statuti e nomine nei consigli di gestione e sorveglianza, no? – ma era comunque energico. Magari per cambiare ancora qualcosa, delle nomine ancora da venire nella penultima fusione bazoliana, quella tra Bpu e Banca Lombarda. Il perché di un tale ritardo è apparso ovvio a molti dei banchieri che ascoltavano Draghi. Se il governatore ritiene opportuno rompere il silenzio ora, invece che impedire ad agosto, hanno pensato, è per dirci due cose. Innanzitutto che Bazoli deve riflettere un attimo su Bpu-Lombarda, le cui nomine ancora devono essere sottoposte all’assemblea di conferma, prima di ripetere in grande stile la sovrapposizione di poteri tra consiglio di sorveglianza e di gestione avvenuta in San-Intesa. Ma, soprattutto, è sulla partita più rilevante, sul tavolo di Generali e Mediobanca alle cui maggiori pietanze Bazoli punta nel prossimo futuro, che veniva acceso un faro dubbioso da parte di Bankitalia – questo hanno capito i banchieri.
Tenuto conto che Draghi sinora si è mosso con grande accortezza, per non mettersi contro i poteri reali che dominano il risiko italiano, è come se tutti avessero capito che il governatore stima Geronzi e la sua Capitalia alla stregua di un protagonista temibile e da non contrariare, e non di un gruppo dall’incerta leadership per futuri nuovi affondi giudiziari o per le divisioni ormai maturate sul suo ponte di comando. Scusate se è poco. Tanto è vero che nel giro di 24 ore la miglior conferma che Draghi parlava per un’avveduta stima delle forze in campo è venuta prima da Alessandro Profumo di Unicredit, il quale a sua volta ha attaccato la dual governance bazolianana smentendo tutti coloro che lo volevano solo in faccende tedesche affaccendato. E poi – sorpresa – sono stati i vertici stessi di Generali, Bernheim e Perissinotto, sino a quel momento quietamente dipinti come ormai sodali e sostenitori di Bazoli e della sua San-Intesa, in cambio della conferma al vertice del Leone Alato per iniziativa del fronte azionario minoritario che fa capo a Brescia e alleati invece che a Mediobanca e alle banche sue azioniste, sono stati proprio loro a sparare sulla prima banca italiana, descritta come un progetto che danneggia la compagnia triestina tarpandole un terzo della rete per via della sovrapposizione nel ramo vita tra Alleanza – la joint venture controllata a metà con Bazoli – ed Eurizon, e impedendole naturalmente di estendersi a reti e prodotti di quest’ultima.
E’ stato qualcosa di ancor più grave del giudizio di Draghi, che è un altolà teorico che vale per il futuro. Pronunciata dai vertici di Generali, l’insodddisfazione per San-Intesa a cui gli stessi vertici hanno prestato tanto consenso che Bernheim doveva divenire vicepresidente della banca in cambio dell’umiliazione della sua compagnia, significa una sola cosa: che nel frattempo Capitalia e Unicredit si sono mosse riservatamente con l’artiglieria su Trieste, e hanno spiegato a Bernheim che su Brescia o faceva marcia indietro lui , oppure col cavolo che sarebbe stato confermato dal fronte Mediobanca, ma avrebbe dovuto scommettere all’assemblea di aprile su un conto dei voti tale da vedere Bazoli e alleati più in su del 30% e rotti che fa capo a piazzetta Cuccia, alle sue due banche azioniste e ai loro alleati. Bernheim ha fatto i conti, ha capito che avrebbe perso, ed è tornato sui suoi passi: il che vuol dire che, una volta confermato alla presidenza triestina da Mediobanca, dirà che lui vicepresidente di San-Intesa non può e non deve diventare, perché gli accordi banco-assicurativi penalizzano troppo Generali, e alla compagnia non interessa divenire un pretesto nelle mani di Bazoli per buttare a mare il progetto Eurizon, e spodestare ulteriormente Torino di quel che po’ che resta del megapolo Sanpaolo.
La frattura evidente tra Geronzi e Arpe, con le dichiarazioni rese dall’amministratore delegato di Capitalia contro quelle del suo presidente, in merito alle forze di Vincent Bolloré, degli azionisti francesi di Mediobanca e spagnoli del Santander di Botín – mobilitatesi a sostegno dell’autonomia di Mediobanca, Generali e Capitalia rispetto all’onnivorismo di Bazoli – sono state solo un incidente di percorso. Ma anch’esso significativo: il quarantenne banchiere romano, che ha sicuramente un gran merito operativo per aver moltiplicato per otto il valore di Capitalia da che vi è asceso, non è riuscito a strappare il consenso della grande stampa italiana. Tutti hanno capito che Geronzi e Profumo sono sul piede di guerra, e che prestarsi ai segnali di fumo con Bazoli è impervio persino per il giovane banchiere dai molti risultati ma dalle forse troppo anticipate ambizioni.
Bisognerà vedere ora quale sarà la risposta distillata a Brescia, dove intanto fervono gli ultimi preparativi alla fusione tra Mittel e Hopa. Di qui ad aprile, possono ancora succederne delle belle. Rcs e Corriere sono forse il fronte in cui più difficilmente avverranno novità a breve, dopo l’acquisizione di Recoletos in Spagna ad opera del management imposto da Geronzi e Mieli contro Colao, espressione di Bazoli, che proprio sulla mancata crescita estera del gruppo editoriale era stato zoppicante. E per questo ben venga l’impegno esplicito assunto a proposito di proprietà editoriali dal manifesto del Partito democratico: i più malevoli hanno infatti notato che domenica Massimo Mucchetti sul Corriere ha suonato un mesto addio alla sua stessa proposta avanzata nel recente libro-scandalo di trasformare Rcs in una public company affidandola a una fondazione, abbracciando invece lo schema degli equity funds voluto da Bazoli per il recentissimo Fondo Infrastrutture Italiane, messo insieme tra Cassa Depositi e Prestiti ormai bazoliana e fondazioni amiche.
Per Mediobanca e Generali, è ancora presto per dire se sarà guerra napoleonica o pura manovra clausewitziana. L’ipotesi di fusione Mediobanca-Capitalia è una balla messa astutamente in giro da Gerardo Braggiotti e Repubblica per separare Profumo da Geronzi: fidatevi che la smentita domenicale di Bolloré sul Sole era assolutamente autentica. Per Tronchetti, invece, le manovre antibazoliane di Geronzi e Profumo sono acqua ricca d’ossigeno, dopo i fondali sempre più bassi in cui era costretto a muoversi a seguito degli sviluppi giudiziari sugli spioni prosperati per anni nella “sua” Telecom Italia. Mentre tutti si aspettavano che Guido Rossi fosse pronto a pilotare la discesa di Tronchetti nel capitale di Olimpia seguendo il copione dettato dalla superbanca italiana, il patron di Pirelli dalla guerra bancaria pensa di riottenere il margine per essere lui padrone dei tempi e dei modi per dire sì, magari alla proposta spagnola di Telefonica che gli è venuta per le mani – promettente per il valore che riconosce al titolo Telecom oltre i 3 euro, per non attentare al ruolo di primo azionista che MTP vuole comunque mantenere almeno nel breve, anche se sdrucciolevole per il pretesto che offre a Prodi e al governo di invocare la lesa italianità, rischiando cioè di rilanciare il piano Rovati.
Come si vede, di carne al fuoco ce n’è in abbondanza. La politica balbetta, o si allinea imbelle ai vittoriosi (fino a ieri). Come oggettivamente sembra fare il Montepaschi: proprio non si capisce perché Mussari debba dare una gran mano al superamento delle condizioni poste da Gnutti per la fusione tra Hopa (di cui MPS è socia) e Mittel, per vedersi escluso – come pare – dal doppio premio che a Fingruppo verrà sia nel concambio sia nella parte cash invece che per carta. Sbaglieremo sicuramente noi per eccesso di tifo, ma ci sono aiuti gratis che non si spiegano né se MPS è solo una banca che pensa ai propri interessi – anche se spera nei 197 sportelli che Bazoli deve ancora dismettere per ragioni di antitrust, perché tanto la dismissione avverrà tramite gara e non certo per riconoscenza – e tanto meno se in MPS conta ancora qualcosa la politica: perché sarebbe la politica di lambire la mano che ti bastona.