I nuovi anti-italiani

Se non temessimo di accreditare l’insopportabile litania di tutte le strampalate teorie della cospirazione invalse nella letteratura di genere, diremmo che il ritorno del terrorismo era largamente prevedibile. Tra le tensioni con gli Stati Uniti e le polemiche sull’interventismo del Vaticano, l’Italia del 2007 non sembra avere fatto molta strada rispetto all’Italia degli anni Settanta, che proprio in questi giorni nel nostro paese si celebrano allegramente, nel fiorire di una memorialistica di dubbia sincerità, mentre i giornali si riempiono delle deliranti elucubrazioni dei sovversivi di oggi e di ieri.
La manifestazione di Vicenza che in un certo senso ha portato alla crisi di governo, la manifestazione di sinistra (si fa per dire) che si è svolta nel cuore di quel Nord-Est ricco, leghista e berlusconiano, andrebbe inserita in questo contesto. All’origine non era una manifestazione contro gli Stati Uniti più di quanto il movimento contro la Tav nato in Val di Susa non sia contro i ferrovieri. Più che anti-americani, si tratta di movimenti anti-italiani. Un fenomeno di regressione particolaristica assai diffuso ed esteso, certo non solo in Italia, ma che in Italia trova un ambiente particolarmente fertile, per ragioni storiche che rimontano assai in là nel tempo e per ragioni politiche molto meno antiche. Fino a pochi anni fa quella di rappresentare e fomentare una regressione particolaristica, campanilistica e corporativa era l’accusa principale che da sinistra si muoveva al centrodestra. Un’accusa ricorrente e volutamente, ossessivamente reiterata, a segnare il confine della propria irriducibile alterità, a definire l’identità dell’intera coalizione di centrosinistra. Un’accusa fondante, potremmo dire, che si articolava di volta in volta nei suoi connotati morali (l’egoismo), economici (il corporativismo, ma anche il “liberismo selvaggio”, considerato come una forma di corporativismo dei magnati) e politici (l’antieuropeismo, e più in generale l’enfasi posta sull’isolamento internazionale, la perdita di prestigio e credibilità del paese nel mondo). Questa era la retorica del centrosinistra, che ne delineava l’identità per opposizione, come sempre accade. Il centrosinistra si caratterizzava così per il proprio senso di responsabilità nazionale, solidarietà sociale, apertura all’Europa e al mondo. Il centrosinistra si caratterizzava come la forza della modernizzazione e del progresso, in una visione di più stretta integrazione europea e internazionale. Si caratterizzava, soprattutto, come la forza che avrebbe saputo unire il paese – di qui il nome di Unione scelto per l’intera coalizione – portandolo fuori dai mille conflitti accesi dalla visione particolaristica e grettamente egoistica del celebre asse del Nord rappresentato da Lega e Forza Italia. Almeno sul piano della propaganda, si direbbe che le parti si siano rovesciate. Gli esempi sono tali e tanti, ancora in questi giorni, che non c’è bisogno di farne l’elenco.
E’ su queste basi che da tempo i fautori della restaurazione tecnocratica portano avanti la loro campagna, osservando compiaciuti le oscillazioni del governo di fronte al ribellismo localistico e alla decomposizione della sua stessa maggioranza, in cui affondano come una lama nel burro gli interventi americani e vaticani, seguiti da tutte le corporazioni e le lobby del paese. Secondo buona parte dei nostri più illustri intellettuali e commentatori delle cose politiche, il quadro che abbiamo appena riassunto dimostrerebbe una presunta refrattarietà del paese alle riforme (così, senza ulteriori specificazioni, quasi che il termine “riforme” non ne avesse bisogno). Non si vede però come un governo dei tecnici o di grande coalizione potrebbe permettere di risolvere il problema, che non è l’approvazione di questa o quella riforma, né il via libera a questo o quel cantiere. E’ un problema squisitamente culturale, che riguarda tutto il paese e che pertanto dovrebbe interrogare innanzi tutto i suoi intellettuali. I quali potrebbero forse rimandare per qualche tempo i loro articoli sulla necessità di nuovi equilibri politici più o meno dichiaratamente neocentristi – sorta di bizzarra cura omeopatica contro i mali del tanto deprecato consociativismo – per dedicarsi più utilmente al tema all’ordine del giorno: la ridefinizione di una sia pur vaga idea di interesse nazionale.