La città di Fausto

Considerate la contestazione della settimana scorsa all’università di Roma e chiedetevi: ma veramente un altro Bertinotti è possibile? Chiunque abbia letto “La città degli uomini”, il primo libro scritto da presidente della Camera, può sincerarsene da solo: difficilmente. In queste “cinque riflessioni in un mondo che cambia”, che nascono da una serie di interviste rilasciate a Sergio Valzania (quello di Radio3 Rai col pallino dei pellegrinaggi e del Monte Athos), l’unico a rimanere se stesso è proprio lui, Bertinotti. “La città degli uomini” è infatti, nel linguaggio e nella sostanza, un tipico libro bertinottiano. E chi gli ha gridato “buffone” per sottolineare che il vecchio attizzatore di fuochi si è trasformato in pompiere farebbe bene a entrare in libreria e a sfogliarlo a caso qua a là.
Il linguaggio, dicevamo. Se cercate un mutamento di stile, più istituzionale e ingessato, rimarrete delusi: dalle pagine erompono gli spruzzi creativi di sempre, i neologismi di chi sa guardare al non-ancora, rispetto al “quadro tecnocratico e compatibilista”. E poi altre cose tipo “la traiettoria generale del mondo”, i “depositi di lotte” e frasi intere come “la partecipazione-condivisione non deve necessariamente prendere le forme di un’adesione individuale interamente consapevole a un disegno compiuto da parte di ogni singolo membro della comunità scelta”. Che alzi gli occhi dal foglio, ti togli gli occhiali e, rimbambito, benedici il dio della supercazzola. Prendete il capitolo su “Etica e mediazione nella politica”: starci dietro è una fatica. Si parla di mediazione in sé, di mediazione formalistica, di contenuti della mediazione, di fini del soggetto mediatore. Insomma un delirio di sfere, tassonomie, snodi che – con tutto il rispetto – neanche Max Weber.
Ma se Bertinotti non lo puoi cogliere in fallo sul fronte del linguaggio, ancor meno lo puoi accusare di intelligenza con il nemico quando passi ai contenuti. Lui, anche da Montecitorio, l’“idea che ci sia un tempo, nella storia dell’uomo, nel quale possa esistere un’organizzazione diversa della società rispetto a quella attuale, a quella capitalista” non l’ha abbandonata. E assegna il ruolo di motore del cambiamento al “messaggio che ci arriva in modo esplicito da Porto Alegre”, operando così un coraggioso slittamento dalla classe operaia a una nuova classe di attori sociali che sono una corda tesa tra Baden Powell e Francesco Caruso, e sopra – in bilico – preti di frontiera e donne col mocassino basso. Nel libro ci sono poi un sacco di altri temi classici dell’altermondialismo militante: ambientalismo, globalizzazione, neocolonialismo, attenzione scontrosa e diffidente agli Stati Uniti (anzi, all’“impero nordamericano”), valorizzazione di “protagonismo e partecipazione delle masse” con una “critica della concezione liberale di democrazia, quella elaborata nel corso delle rivoluzioni borghesi”.
A dire il vero però due novità ci sono, o meglio, c’è una maggiore sottolineatura di due aspetti per così dire trasversali a tutta la sinistra: la convinzione che l’Europa, come esperimento riuscito di pluralismo, dovrà essere pietra angolare nell’edificazione di un nuovo ordine mondiale; e la necessità che una politica ormai “sotto schiaffo” riacquisti la centralità che le compete quale luogo delle decisioni pubbliche. Che è un’idea forte non soltanto della sinistra radicale. C’è tuttavia un paragrafo, “Esportare una democrazia che non abbiamo”, che è emblematico. La tesi è questa: la democrazia rappresentativa cede il potere agli esecutivi nazionali che sono esautorati dalle “grandi burocrazie sovranazionali” che, a loro volta, devono obbedire ai “grandi centri di potere delle multinazionali”. E va bene tutto, però, in questa corsa alla regressione causale che somiglia tanto alla “Fiera dell’Est”, verrebbe da osservare: già che ci siamo, non potremmo vedere intanto come funziona questo meccanismo, concretamente, nell’Italia di oggi, con i suoi salotti buoni e le sue reti di relazione nell’economia, nell’editoria e nella politica? Ma Bertinotti si fa prendere subito dalla passione per le cose definitive, mira dritto alla luna e intanto non si accorge di quelli che di mestiere fanno i mozzatori di dita. E’ anche per questo che un altro Bertinotti non sarà mai possibile e – dunque – chi lo contesta sbaglia.