Verità, coppie e dati di fatto

La nota diramata dal Consiglio episcopale permanente “a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto” non contiene particolari novità. Vi si dichiara che “la legalizzazione delle unioni di fatto [è] inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo”, perché “deleteria per la famiglia”. Vi si sostiene che ancor più grave sarebbe “la legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile”. Quanto al primo punto, sarebbe anzitutto auspicabile, visto che si afferma che principi e valori sono non negoziabili, che si accettasse almeno di portare la considerazione su un piano di fatto, misurando ad esempio quanto la famiglia sia stata in altri paesi rovinata (se mai lo sia stata) dall’introduzione di strumenti giuridici analoghi ai Dico: si troverebbe facilmente che stabilire un rapporto di causa ed effetto tra il riconoscimento pubblico delle unioni di fatto e la crisi della famiglia è quanto meno azzardato. Quanto al secondo, l’argomento, assai scarno, è che ciascuno nasce da un rapporto fra un uomo e una donna: questo è il dato naturale insuperabile. Ma l’uso del concetto di natura, in questo contesto e in altri analoghi, è viziato da una quaternio terminorum: lo si prende cioè in due significati distinti, per trasferire surrettiziamente la necessità del dato biologico su un piano morale, sul quale naturale vuole piuttosto valere come sinonimo di razionale, o metafisicamente essenziale. Nasciamo nudi: questo è il dato biologico, a cui nessuno però si sogna di dare un significato morale “naturale”. E se gli uomini dovessero assumere come dato culturalmente insuperabile la loro condizione natale, semplicemente non sarebbero uomini.
Queste brevi osservazioni non tolgono nulla al diritto della Chiesa di esprimersi sulla materia; è anzi perfettamente comprensibile che la Chiesa senta persino il dovere di esprimersi. E se è vero che nella nota ci si sforza di offrire “ragioni valide e condivisibili da tutti a vantaggio del bene comune”, replicando brevemente abbiamo perlomeno indicato come sia ben possibile trovare quelle ragioni nient’affatto condivisibili, ragioni che infatti non sono da tutti condivise.
La nota deve allora indicare in qual modo intenda che ci si debba confrontare con questa pluralità di ragioni: cade qui il richiamo all’obbedienza. Citando precedenti prese di posizione (anche da questo punto di vista, dunque, nulla di nuovo), la nota si rivolge “specialmente ai cattolici che operano in ambito politico”, e chiede loro di attenersi al dovere morale di “esprimere chiaramente e pubblicamente il disaccordo e votare contro il progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali”. Forse per timore che la doverosità di questa “affermazione precisa” non sia sufficiente, i vescovi aggiungono esplicitamente che a nulla vale, in circostanze come queste, “appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica”. Si vorrebbe sommessamente notare, al riguardo, che se ci sono situazioni in cui il principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica non vale, ci sono situazioni in cui principi fondanti la convivenza, propri di uno Stato costituzionale laico e democratico, e cioè autonomia e pluralismo, debbono essere per i vescovi italiani accantonati (almeno dai politici cattolici). Per fortuna, nonostante la presunta unicità della verità, le vie dell’ermeneutica sono davvero infinite, e si è quindi trovato il modo di spiegare che persino queste affermazioni “precise” sono perfettamente compatibili – indovinate con cosa? Ma con il pluralismo e l’autonomia dei laici in politica!
Si dirà: è quello che capita quando si pretende di possedere la verità. Ma non è del tutto vero. È quello che capita quando si pretende non solo di possedere la verità, ma che senza quella verità tutto finisca con l’equivalersi, con il livellarsi, con l’essere indifferente. E questo è fondamentalmente errato: vi sono un mucchio di verità non assolute (e di valori, se piace parlare di valori), che possono ben valere senza che nuoccia loro il fatto che un giorno potranno essere rivedute. Ci sono verità che nessuno metterebbe oggi seriamente in discussione, benché un giorno indubbiamente lo saranno, così com’è già capitato in passato. L’insistita polemica nei confronti del relativismo e del nichilismo contemporaneo misconosce completamente questo dato: solo l’assolutista immagina che, tolto l’assoluto, niente valga davvero.
Ma si può sostenere che, essendo in gioco verità antropologiche fondamentali, bisogna comunque che lo Stato si fermi. Sarebbe peccare di statolatria non riconoscere un limite all’azione statale. Ma il punto non è affatto che non si riconosca un tal limite, ma a quali istanze non individuali, o non selezionate democraticamente, ci si dovrebbe affidare per assegnarlo. Davvero non saprei. Per ragioni storiche e filosofiche (e per taluno anche teologiche: per il bene stesso del cristianesimo) sarei portato a escludere che quell’istanza possa essere, su un terreno giuridico-politico, la Chiesa cattolica. Il che non significa che la Chiesa, lo ripetiamo, non abbia il diritto di dire la sua. Ma prendiamo per un momento alla lettera, sin troppo alla lettera quel che la Cei dice nella nota. Non c’è pluralismo che tenga: stabiliamo che in nome della verità viga uno speciale controllo non di costituzionalità, ma di conformità al dato antropologico naturale delle leggi dello Stato: quale cittadino, cattolico o no, si sentirebbe rassicurato da questa custodia dei guardiani teologici dell’antropologia e della morale? (Conoscete esempi in giro per il mondo? E se sì, quali?).
Poi certo, può capitare che si citi Kant, come fa il professore D’Agostino sull’Avvenire di venerdì scorso, per ricordare l’avversione del grande filosofo illuminista verso il narcisismo individualistico del “nostro caro io”, al quale i Dico darebbero troppo ascolto. Vediamo, allora, Kant. In quella stessa “Fondazione della metafisica dei costumi” in cui il filosofo se la prende con il “caro io che rispunta di continuo”, si ripone nell’autonomia (che D’Agostino vuole invece limitare, giudicandola soltanto presunta) il principio supremo – già: supremo – della moralità. Se i capricci del “caro io” devono essere tenuti a bada, a farlo non deve essere altra istanza che la ragione. E, si badi, con ciò non si intende affatto che esista un qualche principio razionale fondato per esempio sul concetto ontologico di natura umana su cui si possa edificare la moralità. Questa pretesa, come quella (peggiore, agli occhi di Kant) di derivare la moralità “da una volontà divina perfettissima” è rubricata dal filosofo sotto la voce che la squalifica in linea di principio: eteronomia. Eteronoma è la pretesa di determinare la volontà per mezzo degli impulsi egoistici del “caro io”, che D’Agostino stigmatizza così volentieri, ma anche la pretesa di determinarla “per mezzo della ragione indirizzata verso gli oggetti possibili del nostro volere in generale, come nel principio della perfezione”. Il periodare è complesso, ma significa: non c’è alcuna idea di natura umana (di “perfezione”, cioè di realizzazione della buona natura dell’uomo) da cui si possa far discendere il principio della moralità.
E che resta? Tolto il “caro io”, ma tolta pure un’inservibile metafisica della natura umana, “senza poter trovare né aggancio né appiglio in qualcosa che stia in cielo o in terra”, scrive Kant (e sottolineo: neppure in cielo), non è che non resti nulla, o che restino solo l’indifferentismo e il relativismo. No, resta appunto l’autonomia della ragione. Che però si determina da sé, non per obbedienza a qualcuno, nella forma del libero accordo universale a cui ciascuno è chiamato a partecipare. Resta insomma quella forma morale universale che in politica s’è tradotta nelle garanzie liberaldemocratiche e pluralistiche della costituzione republicana. Alla quale c’è da augurarsi che ci si voglia attenere ancora per un po’.