Finché Valter non ci separi

In luglio ho trascorso alcuni giorni in una villa piena di lobbysti americani. Delle sentenze di cui mi sommergevano facendo previsioni sulle loro primarie – “Thompson is peaking too high too early”, “Giuliani is too of a leftist”, “Hillary is the only Dem who can get the nom, and she is the only Dem who can’t get the presidency”, e altre che ho ripetuto a pappagallo al ritorno, suscitando un certo sconcerto tra gli abituali conoscenti per le mie improvvise competenze in politica estera – una mi è tornata spesso in mente nei mesi successivi: la ragione per cui la corsa per le primarie americane è cominciata così presto, spiegavano i miei covilleggianti, è che non si vede l’ora di farla finita con la presidenza Bush, e quindi ci si porta avanti coi preparativi per il congedo. Ora, la questione non è se Prodi stia a Bush come Valter a Hillary (nel senso di quello che vince di sicuro le primarie e altrettanto sicuramente perde le elezioni, e anche del candidato che nessuno chiama per cognome), e neanche perché mai tutta la stampa nazionale scriva Walter quando l’eroe nazionale si chiama Valter. La questione è che sono almeno due mesi che leggo delle primarie dei democratici italiani (quelli minuscoli), e insomma ho avuto tempo per farmi un’idea: se andare o no a votare, e per chi. E se ho deciso solo sabato all’una non è stato perché sono della generazione last minute (ne esisterà certamente una, nelle pagine di costume e società di qualche giornale), e neanche perché le diverse candidature andavano ponderate ben bene. È perché, come in una puntata di Grey’s Anatomy, ci voleva una questione privata per illuminarmi sulla diagnosi di un caso pubblico. (Ed è solo per non esagerare coi parallelismi che non mi dilungo circa l’aver sempre trovato Grey’s Anatomy un’irresistibile porcheria).
A favore dell’astensione c’era il messaggio che mi aveva scritto mesi fa un conoscente la cui propensione all’astensione avevo stigmatizzato in nome del passato (quando sei stata una bambina comunista, lo resti per sempre): “La legittimazione del leader designato verrà non tanto dal numero di voti, quanto dall’affluenza. Se anche a votare fossero in tre, il giorno dopo Repubblica aprirebbe con ‘Una marea di tre persone incorona Veltroni’ e il Corriere con ‘Oltre due persone ai gazebo’. Che siano tre o tre milioni, io voglio poter dire a mio figlio che non ero tra loro”. A favore della partecipazione c’era il fatto di non avere figli cui tentare invano di trasmettere la cieca disciplina di partito per cui a votare ci si va, punto (non tutti hanno la fortuna temporale di poter essere bambini comunisti).
A favore di Rosy Bindi c’era il suo essere l’unica laica in gara. A sfavore dell’intera operazione c’era il fatto che una gara in cui una cattolica praticante è la più laica è una gara per la quale non ho una gran voglia di tifare.
A favore di Enrico Letta c’erano amici che lo appoggiavano, senza portare grandi argomenti a sostegno ma con un’impeccabile argomentazione circa la necessità di arginare il plebiscito per VV: nella sua lista c’è la Binetti. La Binetti. Perdindirindina. Avevo rimosso.
A favore di Adinolfi c’era la promessa che mi aveva fatto quando ancora il contributo per votare era di 5 euro: di rimborsarmeli. A sfavore c’era la mia trascuratezza nel non avergli successivamente domandato se, alla nuova tariffa elettorale di 1 euro, lui me ne avrebbe comunque riconosciuti 5, facendo di me un’elettrice corrotta ma certamente zelante.
A favore e sfavore di Gawronski non c’era niente: mi ha sempre fatto l’impressione di quelli che chiami all’ultimo momento, quando ti accorgi che se non riempi quel buco a tavola sarete in tredici.
La fase finale del dibattito si è avviata venerdì pomeriggio, in una macchina piena di presumibili elettori del partito-che-verrà, diretta a un matrimonio in Umbria. Ogni obiezione chiunque ponesse su ogni candidato non fosse VV veniva tacitata con lo stesso mantra: “La Binetti”. In quel momento ho avuto il dubbio che, essendo la nostra priorità non venire governati dai preti, fossimo un campione così poco rappresentativo del paese da dover forse prendere in considerazione l’emigrazione, piuttosto che il voto alle primarie. Poiché un dubbio non basta per una decisione, ho aspettato: quella sera da Daria Bignardi ci sarebbe stata la Bindi, io avrei ascoltato, mi sarei convinta, e domenica, prima di andare in aeroporto e prendere il volo che nel pomeriggio mi avrebbe portato all’estero, avrei fatto il mio dovere di brava bambina comunista. La scheda elettorale era nella stessa tasca del passaporto. Ma dio esiste e, quando non è impegnato in pratiche sadomaso con la Binetti, organizza le scalette di prima serata; prima di andare alla cena prenuziale, avrei fatto in tempo a vedere solo il primo ospite della Bignardi: peccato non fosse Rosy B., ma Sergio Staino. D’accordo, era un altro segno. Ma due segni non conducono a una decisione neppure nelle commedie romantiche. Non ero ancora decisa a venir meno ai miei doveri.
Sabato mattina ero seduta a guardare due amici sposarsi. In comune. Nell’Umbria rossa. Con le bandiere dell’Ulivo che sventolavano fuori dal municipio. Un tizio che non si faceva una ragione dell’indossare una fascia tricolore e non dei paramenti da vescovo ha esordito dicendo ai convenuti che certo, il matrimonio civile non era come quello religioso. Ho pensato di aver capito male: stava dando ai due lì seduti degli sposi di serie B? Poi ha spiegato che era un momento difficile «per i valori». Ho visto davanti a me il futuro del Partito democratico: così come sono superflui i Pacs, in fondo lo sono anche questi matrimoni light, altrimenti detti “civili”. Poi, con un tempismo ammirevole, il celebrante ha raccomandato – a una che ci ha messo sei mesi a scegliere l’abito da sposa e a uno che ha fatto un mutuo per pagare il pranzo di nozze – di non divorziare: è una cosa che fa soffrire i figli, “se ne farete”. La sposa – mantenendo un’invidiabile compostezza e non lasciandosi scappare neppure una bestemmiuccia piccina picciò – ha indicato la bambina in prima fila: “Ne abbiamo già una”. Ho temuto che il sindaco che il Partito democratico si merita chiamasse un prete per esorcizzare la piccola bastarda. Si è trattenuto. Ha portato a termine l’imitazione di matrimonio. Il giorno dopo sono andata direttamente in aeroporto. La sera, in un albergo di Kensington, ho acceso il computer per trovare conferma delle previsioni: il conclave aveva eletto Valter I.