La trionfale sconfitta della sinistra danese

Il morale non è certo altissimo a Danasvej 7, nel sobrio stabile in cui da qualche anno si è ritirata la socialdemocrazia danese, per risparmiare quelle risorse che il sindacato confederale LO ha deciso di corrispondere con sempre minore generosità. Esperti, strateghi e “soldati di partito”, come li chiamano, stanno analizzando l’ultima brevissima campagna elettorale giorno per giorno, quasi ora per ora. E concludono ancora una volta che, certo, nella recente sconfitta ha contato la disparità di risorse con i partiti borghesi, che a quanto si valuta possono ormai disporre di mezzi tre-quattro volte superiori. Così come ha contato la facoltà costituzionale, da parte del primo ministro Anders Fogh Rasmussen (da non confondere con il socialista Poul Rasmussen), di indire elezioni con eccezionale rapidità. E quindi nel momento che a lui più conviene: dalla dichiarazione ufficiale al voto del 13 novembre sono passati ventidue giorni.
Qualche altra considerazione riguarda poi la sempre maggiore spietatezza delle campagne elettorali nordiche. L’anno scorso le elezioni svedesi furono infestate da diversi casi di spionaggio informatico. Quelle danesi di quest’anno hanno offerto uno spettacolo anche peggiore: il responsabile della comunicazione socialdemocratico Sass-Larsen è stato accusato di intelligenza con il nemico. Alle elezioni del 2005 avrebbe passato informazioni preziose al suo omologo liberale, che in questa campagna elettorale lo ha sbugiardato sulla stampa. Con l’effetto peraltro di costringerlo a difendersi, anziché attaccare, per tutto l’evolversi della contesa.
Ma non tutto si esaurisce in un retrospettivo pessimismo, perché fra le speranze dell’opposizione almeno una non è andata delusa: la riapertura degli spazi di manovra e in genere la movimentazione del quadro politico. Perché se i socialdemocratici, al 25,5%, hanno perso lo 0,3% e due mandati, i liberali, al 26,2%, hanno perso oltre due punti e sei mandati. Con ciò, la passata maggioranza liberalconservatrice, con appoggio esterno nazionalpopulista (Dansk Folkeparti), non è più autonoma in parlamento. Toccherà aprire al nuovo partito liberale di centro Nuova Alleanza, creatura di plastica messa in campo per spingere il centrodestra sulla strada di un più netto taglio fiscale verso cui tutti, tranne che i conservatori e qualche tardo-thatcheriano fra i liberali, sono prudentissimi se non diffidenti. Del resto, Nuova Alleanza appare proprio come una di quelle imprese politiche disegnate negli ambienti giusti: appoggio di parte (solo parte) dei think tank confindustriali e reclutamento da veri e propri “cacciatori di teste” aziendali di una leadership così composta: un ex social-liberale (cioè di centrosinistra) e una conservatrice provenienti dal parlamento europeo. Cui si aggiunge soprattutto l’immigrato siriano Naser Khader, reclutato per mandare un messaggio ostile ai nazional-populisti, ma anche capace di attrarre quella “buona borghesia” in preda alla costernazione per le parole d’ordine così poco umaniste dei nazional-populisti stessi. E magari di allettare qualche elettore del centrosinistra tra i più benestanti, che così, con la coscienza rabbonita dalla possibilità di portare il governo più “al centro” (e per giunta su tematiche buoniste), si concede il sogno di un paio di punti in meno di pressione fiscale. L’unico problema è che, come senza eccezioni accade a operazioni di questo tipo, i voti di Nuova Alleanza sono pochissimi: il 2,8% (soglia di sbarramento al 2%). Con uno sgonfiamento progressivo nei mesi, man mano che si procedeva dalla presenza mediatica alla ricerca dei voti veri e propri.
Il centrodestra avrà dunque vita ancora più dura perché molto disomogenea sarà (se sarà) la maggioranza che va dai nazional-populisti (che di sgravi fiscali non vogliono praticamente sentir parlare, se non per i redditi più modesti) e il nuovo partito di polistirolo più aperto all’immigrazione, e che addirittura proclama un obbiettivo ideale di aliquota piatta al 40 per cento. In mezzo, i liberali che dicono semplicemente, con Fogh Rasmussen: “Tutto si può fare”. Di fronte a questo, è vero, i socialdemocratici hanno tentato la contromossa con lo slogan “Scegliamo il welfare”. Non tanto perché, banalmente, “tutto non si può avere”. Piuttosto perché, in una situazione di tassi di occupazione congenitamente altissimi e disoccupazione ormai al 3 per cento, delle due l’una: o si aumentano, e con determinazione, i salari di chi lavora nel settore pubblico, oppure esso subirà una fuga di manodopera e competenze che presto o tardi diverrà anche tracollo di operatività. Per cui, dicono a Danasvej, nessuno sgravio fiscale, nemmeno in prospettiva, e per il settore pubblico aumenti salariali subito. A questo fine si è delineata una maggioranza alternativa, fatta di socialdemocratici, nazionalpopulisti e socialisti popolari (che hanno avuto un enorme successo: 13 per cento dei consensi, con raddoppio netto) destinata a strappare aumenti, specialmente per le moltissime donne impiegate nel settore socio-sanitario. Difficilmente il premier potrà sottrarsi alla forza di queste argomentazioni e di questo schieramento.
Ma nonostante la caratterizzazione pro-welfare, al contempo razionale e disperata, del vecchio partito operaio, questo è il punto interessante: nessuno, proprio nessuno, parla di attaccare o ridurre lo stato sociale. Persino Nuova Alleanza e i conservatori motivano la loro campagna pro-sgravi fiscali (anche e soprattutto sulle aliquote alte) con un ragionamento di questo tipo: in un’epoca di scarsità di manodopera occorre aggiungere motivazioni a lavorare di più. Ciò produrrà più crescita a finanziamento del welfare costante, anche e soprattutto in virtù di aliquote più basse.
Tale postuma e totale sconfitta dell’ideologia dello stato minimo ha una causa egemonica evidente: alla virtù “protettiva” dello stato sociale (che sta a cuore soprattutto al Dansk Folkeparti, il partito dei ceti più chiusi e diffidenti, uscito confermato dal voto sul 13 per cento), i socialdemocratici negli anni Novanta hanno ormai definitivamente aggiunto quella della competitività. Il welfare è ormai incontrovertibilmente, in modo palese sulle sponde del Sund, un’infrastruttura della competizione. Il premier Fogh Rasmussen ha ormai dimenticato totalmente il suo vecchio libro di inizio anni Novanta, intitolato “Minimumsstat”. Sostituito con il precetto di questi anni, lo skattestop, principio programmatico, con problemi notevoli di anelasticità, per cui non solo la pressione fiscale in genere non può complessivamente aumentare (questo lo dicono anche i socialdemocratici) ma nemmeno nessuna singola tassa.
Il risultato è che i liberali di Fogh Rasmussen si logorano e perdono voti, subendo il piccolo travaso verso Nuova Alleanza, disegnata per spingerli in direzione di aliquote più basse e maggiore indipendenza dai nazional-populisti. Però conservano la leadership. Gli analisti socialdemocratici ragionano su un grafico: la maggioranza di centrosinistra (idealmente composta da Socialdemocratici, Socialisti Popolari e Social-liberali, con appoggio dei democristiani, rimasti però fuori dal parlamento) era in testa fino al 6 novembre. Dal momento in cui il dibattito sul welfare ha perduto impulso, lasciando il posto a quello su immigrazione/integrazione, le cose sono cambiate. Ma il grafico si fa interessante soprattutto se incrociato con un altro: dopo il welfare, in cima alle preoccupazioni dell’elettorato c’è appunto l’immigrazione. Le tasse sono anch’esse nei pensieri degli elettori, ma non in primo piano. In sintesi, l’analisi è la seguente: dopo che i primi dieci giorni di campagna elettorale avevano rassicurato gli elettori sulla prima preoccupazione (welfare), si è passati alla seconda (immigrazione). E la destra ha vinto. Con molte contraddizioni, e complicazioni a volontà. Ma lasciando a tutti i socialdemocratici un insegnamento: va ripreso un rapporto con i voti che da sinistra sono andati nel 2001 al Dansk Folkeparti. E’ finito il tempo in cui si diceva loro: “Non sarete mai degni del salotto buono”. Chissà che la vertenza sui salari pubblici non serva anche a questo. Ma c’è anche un altro insegnamento da trarre e che ha del paradossale: a volte proprio da una vittoria storica – o dalla propria egemonia, se si preferisce, come nel caso dell’unanime schieramento pro-welfare – può venire la sconfitta.