Lettere da una prigionia infinita

Questa volta, nonostante ricorressero trent’anni esatti dal 16 marzo del 1978, non si può dire che il caso Moro sia tornato al centro del dibattito, come pure sarebbe stato ragionevole attendersi. Nuovi libri dedicati al tema sono stati pubblicati e altri sono stati ristampati per l’occasione. Politici, storici e giornalisti hanno aggiunto il poco che avevano da aggiungere al molto che è già stato detto. Niente di simile, comunque, a quanto si è visto e sentito solo un anno fa, per una ricorrenza assai più generica e meno significativa come quella del ’77.
A risvegliarci la memoria ha pensato, a suo modo, Franco Piperno. Il vecchio leader di Potere Operaio, pochi giorni fa, ha detto di considerare i terroristi delle “ottime persone” – “moralmente”, s’intende – discettando in tv sulla storia degli anni Settanta come storia “scritta dai vincitori”. Con l’occasione, sfortunatamente, non ci ha detto in quale campo dovremmo collocare lui, se tra i vinti o tra i vincitori, tra le passive comparse o invece tra gli attivi estensori di quella storia. Ma che la lettura consolidata degli anni Settanta e del terrorismo sia in buona parte fasulla, pur essendo da oltre trent’anni al centro del dibattito pubblico, glielo concediamo volentieri.
Una felice eccezione alla fuorviante discussione cui siamo abituati – anzi, un antidoto – è invece la recente edizione delle lettere di Aldo Moro, “Lettere dalla prigionia”, curata per Einaudi da Miguel Gotor. Ottimo antidoto, innanzi tutto, al ricorrente e sempre più anacronistico dibattito tra ragion di stato e ragioni umanitarie. Quasi che allora Benigno Zaccagnini o Paolo VI non avessero ben presente il valore della vita umana e fossero pronti a sacrificare senza tante preoccupazioni uno degli uomini ai quali erano personalmente più legati. Quasi che lo stesso Moro potesse davvero pensare di rivolgersi pubblicamente alle massime cariche dello stato implorando una trattativa con le Br, che nel frattempo continuavano a insanguinare l’Italia, richiamandosi semplicemente al valore della vita umana e allo strazio della sua famiglia.
Nella prima lettera a Francesco Cossiga, invece, Moro chiedeva una trattativa segreta. Ma quella lettera fu resa pubblica il giorno stesso da un comunicato dei brigatisti, felici di poter dileggiare le “manovre occulte” tipiche della “mafia democristiana”, per poi far credere a Moro che a divulgare la notizia fosse stato il ministro degli Interni, come dimostra la seconda lettera inviata dal prigioniero a Cossiga, in cui gli rimproverava quel gesto sconsiderato (lettera che ovviamente le Br si guardarono bene dal recapitare).
Cominciava così la crudele strategia dei terroristi tesa a dividere l’ostaggio e i suoi familiari dallo stato e dalle forze politiche, elemento fondamentale nel loro piano di destabilizzazione. Così, in questo come in tanti altri casi, la paziente ricostruzione filologica di Gotor permette di rimettere in ordine i pezzi del puzzle. E di restituire l’onore a Moro, che disseminò le sue lettere di studiati errori e di messaggi in codice, per aggirare la censura brigatista e avvertire i suoi destinatari di quanto fosse condizionato, nello scrivere, dal ricatto dei carcerieri. Uno sforzo che in qualche caso ebbe successo, ma che fallì l’obiettivo forse più importante – anche perché la maggior parte delle lettere, all’insaputa del loro autore, non fu recapitata – e cioè quello di sottrarlo al lucido disegno diffamatorio escogitato dai terroristi. Lo statista democristiano doveva uscirne come un vile, egocentrico e piagnucoloso politicante. E proprio per questo, verosimilmente, le Br non inoltrarono una lettera in cui Moro accennava agli agenti della sua scorta massacrati e al dolore delle loro famiglie (e anche questa mancanza di tatto, infatti, gli fu rimproverata). I brigatisti, invece, dovevano emergere come carcerieri pietosi che aspettavano solo un pretesto per liberarlo. Il governo, infine, e soprattutto Dc e Pci, dovevano apparire come i veri carnefici, gli unici responsabili della sua condanna a morte, che i rapitori sarebbero stati praticamente costretti a eseguire, quasi controvoglia.
A questa rappresentazione si prestò purtroppo anche Leonardo Sciascia, che nel suo celebre “l’Affaire Moro” cantò l’ardimento romantico di quei terroristi che avevano “rischiato la vita” solo per recapitare gli auguri pasquali di Moro a sua moglie. Eppure Sciascia sapeva che quella breve lettera di auguri ne accompagnava altre due, e tra queste proprio il primo messaggio indirizzato a Cossiga, evidentemente di ben altro valore per le Br.
Lo scrittore siciliano fu tra i più decisi sostenitori dell’autenticità degli scritti di Moro, sostiene Gotor, semplicemente perché “il tema gli consentiva di vestire i sempre comodi e seducenti panni dell’antipotere istituzionalizzato, del moralista indignato, dello straniero in patria, alla ricerca spasmodica di un ruolo di intellettuale civile che potesse occupare lo spazio pubblico lasciato vuoto da Pier Paolo Pasolini, di cui però gli mancava, avrebbe detto Moro, il fervore”. Una posizione a suo modo emblematica di tanti intellettuali italiani. Non solo allora.
Nel drammatico epilogo di quei 55 giorni pesarono anche questioni apparentemente minori, umane miserie, ambizioni e avventure personali. E probabilmente pesano ancora. Ma pesò anche una vasta rete di complicità e di ricatti, non sempre d’infimo livello. E anche questa, verosimilmente, ancora pesa. Del resto, a cosa dovevano servire le fotocopie degli originali trovate nel covo delle Br, che pure di ogni lettera facevano copia dattiloscritta, assai meno compromettente, oltre che più facilmente leggibile? Gli originali non recapitati ai destinatari, però, non si è mai capito dove siano finiti (per non parlare del celebre memoriale). Certo è che la maggior parte delle lettere scritte dal prigioniero non fu mai recapitata. E molte altre, che certamente furono scritte, non sono mai state ritrovate nemmeno in copia. Gli ex brigatisti – di solito assai loquaci – sulla sorte delle carte di Moro si sono mostrati sempre alquanto elusivi, fornendo infine una versione inverosimile come quella del rogo in cui avrebbero incenerito ogni cosa. Ma per quale motivo avrebbero dovuto perdere tanto tempo nel loro meticoloso lavoro archivistico, e soprattutto correre tali e tanti rischi, se quell’autentico tesoro – l’unica vera arma in loro possesso dopo la morte di Moro – fosse stato comunque destinato a finire in cenere?
Spesso la reticenza si nasconde meglio nella loquacità che nel silenzio, come dimostrano tanti instancabili memorialisti di quegli anni. Assai estesi, infatti, furono i rapporti tra le Br e il variegato mondo della sinistra extraparlamentare, giovani e vecchi leoni del ’68 sempre in attesa della loro grande occasione, raffinati intellettuali che teorizzavano apertamente – come faceva Piperno – il passaggio “dal terrorismo alla guerriglia”. Rapporti carichi di sotterranee tensioni e indistruttibili solidarietà. Ma non meno decisive apparvero allora, com’è noto, le infiltrazioni e le complicità negli apparati dello stato e nelle stesse forze politiche.
In una simile palude di ricatti, silenzi e molteplici lealtà, inevitabilmente, si abbeverarono servizi segreti e governi di tutto il mondo. Lo stesso Moro mostrò di nutrire pesanti sospetti sulle possibili interferenze internazionali, inserendo il suo caso nell’ambito di quella “strategia della tensione” che dal 1969 aveva rappresentato di fatto il principale ostacolo alla sua linea del dialogo con i comunisti, la “strategia dell’attenzione”.
Questa sottile e complicatissima trama, ovviamente, il libro di Miguel Gotor può solo lasciare intravedere. In compenso – a proposito di quella palude in cui tanti sguazzarono – l’autore ci offre il migliore ritratto possibile di un’intera generazione. La generazione di chi proprio allora cominciava a fare carriera: “Allora ragazzi, oggi con i capelli imbiancati e i corpi appesantiti dal trascorrere del tempo e delle occasioni. Ma sempre scaltri, intelligenti, cinici, ideologici, narcisi, camerateschi, capaci di cogliere gli estremi delle due posizioni in campo, descriverli con efficacia e poi navigarci in mezzo sicuri del loro mestiere, padroni del proprio disincanto, maestri nel soffiare a fasi alterne sul fuoco dell’antipolitica dei partiti, l’ultima traccia dell’extraparlamentarismo di una fuggita gioventù”. A ripensarci, lo scarso dibattito suscitato dalla ricorrenza del sequestro Moro, forse, non è neppure un male.