Il trionfo della perversione

“Questo paese è impazzito”, così era sbottato l’ex-presidente del Consiglio, se non ricordo male, qualche mese prima della caduta del governo. Per certi versi non aveva torto, come abbiamo potuto constatare, anche se forse si potrebbe calibrare meglio quell’impressione. Non si tratta infatti di vera follia, cioè di psicosi. Come vorrei provare a suggerire in poche parole, quasi per scherzo, ma con un pizzico di serietà, si tratta di perversione − termine che userò qui in un senso puramente clinico, non morale, e più precisamente in un senso psicoanalitico. Sta accadendo qualcosa oggi. A partire da Lacan, molti psicoanalisti ce lo hanno segnalato. Le vecchie paratie nevrotiche stanno crollando una in fila all’altra con effetti di graduale ma prepotente rimodellamento del legame sociale, effetti dalle inevitabili e pesanti ricadute politiche. Il mondo nevrotico, il vecchio mondo, sta scomparendo ormai. “Questo non è un paese per vecchi”, ci ricorda l’emblematica e commovente conclusione del recente film dei Coen, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy. Quel vecchio mondo era incardinato ancora saldamente sulla figura del padre Ideale, severo, corrucciato, che ci appendeva tutti alla Legge intransigente dei desideri insoddisfatti. Di qui il suo duplice, e logico, pendant politico: in primo luogo, una discorsività politica incentrata sull’insoddisfazione individuale e sulla rivendicazione collettiva; in secondo luogo, una leadership, una paternità politica mossa dall’Ideale frustrante di una Legge che per esser tale deve condannarci all’impotenza, per esempio a un’infinita progettualità politica del corpo sociale in base a parametri ideali − non reali e mai pienamente realizzabili − di Giustizia. Non è che tutto ciò sia scomparso di punto in bianco. Rimangono tuttora tracce di discorsività nevrotica, qua e là, così come rimangono tracce di politica nevrotica. Le politiche della Giustizia o (in termini vagamente psicoanalitici) della Legge ideale che contiene e frustra il godimento individuale, possono assumere ancor oggi la forma stantia della rivendicazione sindacale (Sinistra radicale) o possono magari assumere la forma di una rivendicazione fiscale (Lega Nord) o di una rivendicazione morale (Italia dei Valori): in tutti i casi, però, sempre di rivendicazione si tratta, all’interno di una precisa intelaiatura dei rapporti collettivi che tende ad assegnare al leader un profilo altrettanto preciso, a prescindere dai contenuti tematici della sua proposta. Ciò che qui conta, in definitiva, è la struttura del rapporto tra l’elettore e la sua guida, non la comune appartenenza ideologica di questo e quello. Non è che una traccia. Eppure a partire di qui si potrebbe capire meglio, forse, cosa significhi oggi “voto di protesta” e quali siano i canali di flusso sotterraneo da un bacino elettorale all’altro, pur al cospetto di strepitose discrepanze ideologiche tra il punto di partenza e il punto di arrivo. Sotto l’arcobaleno variopinto delle politiche della Giustizia, che potremmo anche definire politiche del desiderio, l’istanza della Legge impone il suo sigillo simbolico, che apparenta in profondità i vari volti della serietà nevrotica, da cui vengono assorbite e rilanciate le residue domande sociali insoddisfatte. Ciò che fa prevalere ora un volto ora l’altro dell’insoddisfazione è allora la credibilità altalenante dei diversi attori che si ripromettono di incarnarla, alzando la voce, urlando lo scontento, esasperando i toni, nel più trito stile della politica nevrotica, che non tollera comunque la confusione delle voci rivendicative e necessita ogni volta in superficie di un solo, chiaro, inequivocabile punto di proiezione idealizzante.
Ma tutto questo è vecchio (anche in un senso anagrafico probabilmente). Il nuovo stile della politica è diverso. Il nuovo è perverso. Non accorgersi della novità significa continuare ad arrovellarsi sulla geografia del voto, per esempio, quasi che i padri e i figli di oggi si assomigliassero come quelli di cent’anni fa. Davvero lo possiamo credere? O possiamo limitarci a ripetere che l’Italia è un paese di destra, per cui, se ieri si votavano Andreotti e Forlani, oggi si vota Berlusconi? Chi non si avvede della radicale differenza tra i due e del totale stravolgimento che ha conosciuto in questi anni la figura del leader, in linea con un parziale smottamento della discorsività pubblica? Non per dare una risposta, ma per porre con più forza la domanda, vorrei attirare l’attenzione su certe caratteristiche della perversione − che è uno dei tre modi (assieme alla nevrosi e alla psicosi) in cui un soggetto umano può stare al mondo per la psicoanalisi − che sembrano collimare con certi tratti stilistici dell’attuale discorsività politica. Anni fa, Richard Hofstadter aveva parlato, in un saggio illuminante, di uno “stile paranoide della politica americana”. Non ho modo d’argomentarlo per esteso, ma forse potremmo parlare oggi di uno “stile perverso della politica italiana”. Quelli che elenco di seguito sono solo alcuni dei tratti ricorrenti di una stilistica perversa (un termine, lo ripeto, in cui non è sottintesa alcuna valutazione morale). Anche da questi pochi cenni emerge, credo, la loro assonanza con quanto sta accadendo al momento nel nostro spazio pubblico.
La messa in scena, ad esempio, ossia una teatralizzazione, una spettacolarizzazione degli intercorsi umani, volta a situarli in un registro di esplicita, assunta finzione. Qui il falso non si oppone al vero, al contrario: il finto è ricercato in quanto tale, per alleggerire il peso di una realtà insoddisfacente in nome di un godimento che, per quanto fittizio, non sia più procrastinato. La messa in scena è una sorta di pantomima frenetica della felicità, utile a spegnere la luce sulla proprietà mortificante del desiderio, votato all’insoddisfazione in un più tradizionale schema nevrotico. Donde una seconda caratteristica della perversione, quella del godimento ostentato, scaraventato in faccia all’altro, che ci spinge fuori dal porto della Legge e ci fa salpare per una nuova terra etica, la terra del Contratto. Nel gioco perverso, infatti, è il Contratto stipulato dai partecipanti, e non più la Legge ereditata, a regolare lo scambio di reciproca soddisfazione. Questo Contratto, con cui la scena del godimento è inquadrata in una cornice socialmente condivisa, non rispetta la Legge; ne sollecita invece una derisoria trasgressione. Tale è il modo in cui il perverso penetra in uno spazio collettivo, restando avvinghiato all’ordine, all’argine della Legge, da cui è confinato uno spazio condiviso. Il godimento perverso, per essere davvero sfrontato, deve di continuo graffiare, erodere un limite. Donde una terza caratteristica della perversione, il perenne e complice dileggio della Legge. Un perverso non è semplicemente un fuorilegge, è qualcuno che in realtà dimora nella Legge, ma vi dimora in un modo tutto suo: la tiene in piedi, e ne ha bisogno, ma può tenerla in piedi solo con lo sberleffo denigrante. Il suo godimento è tutto qui, esso trae alimento da uno scacco reiterato della Legge, approvato periodicamente da un Contratto coi partner, che non ne sono tratti in inganno a ben vedere, che ne sono consapevoli, che stanno al gioco, accettando una logica consociativa che li sgancia da ogni proiezione idealizzante. (Ecco perché quello perverso non è uno spettacolo qualunque, ma uno spettacolo costruito in un modo ben preciso, che consiste in una fittizia, e per questo mai conclusa, conversione dello spettatore stesso in attore senza più ancoraggio a un terzo ideale che presentifichi un reale inattingibile, esterno allo spettacolo.)
Piccola fenomenologia portatile che andrebbe dettagliata molto meglio: messa in scena di un’esplicita finzione, godimento ostentato, dileggio spudorato della Legge (che non ne annienta la vigenza, ma ne rifiuta sistematicamente la presa). Non vi ricorda nessuno? E se ve lo ricorda, quanto assomiglia questo qualcuno a De Gasperi o a Fanfani? Detto così, è una boutade. Ma forse la cosa meriterebbe un approfondimento. Le odierne politiche del godimento seguono schemi nuovi, incarnati da leader altrettanto innovativi, che stabiliscono coi loro elettori un rapporto anch’esso inedito, vistosamente differente da quello instaurato dalle vecchie politiche del desiderio. Lasciamo da parte le idee, che possono e debbono contare sempre per governare, ma non contano più granché per raggiungere il consenso: ciò che importa davvero, in questo caso, è la posizione d’ascolto di leader che siamo in tanti, oramai, a non voler più fatti in un certo modo, non perché siano crollati i valori, i principi (e via cantando) d’una volta, ma perché si è trasformata − o dimostra di essere facilmente suscettibile di trasformazione, se sottoposta a una minima pressione − la geometria, la struttura, la dimensione discorsiva che ci continua a contenere tutti dentro gli argini simbolici di una comunità. Questo non significa naturalmente formulare astruse diagnosi sui singoli elettori di questo o quel partito politico (neanche Hofstadter sosteneva che in ogni americano si nascondesse un paranoico). Significa solo che il modo in cui tende oggi a costituirsi il legame sociale, e a ruota politico, si sta deformando (il che finirà in ogni caso per incidere, alla lunga, sul profilo soggettivo dei singoli individui) e prima di interrogarsi sulle cause recondite di questo cambiamento sarebbe meglio chiedersi in che cosa consista esattamente il cambiamento, posando gli occhi sulla sua più cruda e superficiale fenomenologia. Tutto qua: siamo sicuri di portare gli occhiali giusti per farlo? Peggio: esistono già questi occhiali o dobbiamo costruirne di nuovi? (Per essere ancora più chiaro, sto suggerendo di non sottovalutare, in questo delicato frangente, qualsiasi strumento sia in grado di offrirci una comprensione psico-politica, non soltanto socio-politica, dell’oggi, anche se si trattasse di uno strumento démodé, com’è di questi tempi il caso con la psicoanalisi).