La scorciatoia per il deserto referendario

Nel libro che Gore Vidal ha dedicato ai padri costituenti degli Stati Uniti d’America è riportato, sul finire, il malinconico ricordo di un mattino a casa di John Fitzgerald Kennedy. Tra una partita a backgammon e un sigaro, Jackie domanda all’amico scrittore come fu possibile che il secolo XVIII producesse geni del calibro di Franklin, Jefferson o Hamilton, mentre tra la gente potente e influente dell’epoca sua non vi erano che mediocrità. «Il tempo. Loro ne avevano di più», risponde Vidal. E Kennedy di rimando osserva che, effettivamente, più nessuno ha il tempo di rileggersi «tutti quei dibattiti sulla Costituzione».
Nel dibattito sulle riforme costituzionali che affligge l’Italia da un bel po’ di anni pare che sussistano entrambe le condizioni che definivano, agli occhi dei due amici, la mediocrità: in primo luogo, sono pochissimi coloro i quali credono che serva a qualcosa, nel progettare una Repubblica (la terza, se capisco) conoscere meglio la storia politica e costituzionale di questo paese; più in generale, sono pochissimi coloro che, molto semplicemente, leggono, perché credono che passaggi del genere debbano essere governati (anche) con i libri. In secondo luogo, sono tantissimi quelli che si sono stufati, che vogliono bruciare i tempi, rompere gli indugi, sciogliere gli ormeggi, e con i referendum rotolare finalmente via dal centro della storia democratica nazionale, fondata su una pluralità di partiti, verso l’eccitante incognito di un nuovo sistema elettorale che bipartitizzi il sistema politico italiano.
I referendum, d’altra parte, sono nella Costituzione italiana. Non sono uno strumento eversivo dell’ordine costituzionale, ma sono ben piantati dentro la Carta, che li prevede in diverse e non secondarie circostanze. Sono la «seconda scheda» che i nostri Costituenti hanno messo nelle mani del cittadino, come si dice. Non se ne può dunque parlar male senza parlare male della Costituzione.
Si può invece parlare male, e come, del modo in cui procede la discussione pubblica sul prossimo quesito referendario che a quanto pare ci attende per il prossimo solstizio d’estate, nell’ora dell’ombra più corta. Finora s‘è trattato della data: poiché indire la consultazione nello stesso giorno delle elezioni europee avrebbe agevolato il raggiungimento del quorum, mentre fissare una data successiva l’avrebbe ostacolato, uno si sarebbe aspettato una discussione non sui costi della consultazione, ma sulla maledizione o benedizione del quorum. I costituenti hanno infatti posto una condizione, e l’hanno posta a tutela della legislazione ordinaria. Fissare il quorum significava (e ancora significa) evitare che l’abrogazione di una legge approvata dal Parlamento a maggioranza dipenda dal volere di un’esigua minoranza popolare: c’era insomma un’idea del modo in cui equilibrare il rapporto fra gli istituti della rappresentanza e l’espressione della democrazia diretta. Quest’idea è naturalmente discutibile, ma appunto: andrebbe discussa. E invece si è discusso solo dei “costi inutili” sopportati per un turno elettorale in più o in meno: come però possano essere definiti “inutili” i costi che modificano in un senso o nell’altro la prospettiva di raggiungimento del quorum, e che quindi hanno un effetto politico considerevole, è veramente difficile a capirsi. Oppure: si capisce sin troppo bene.
Il fatto è che a larga parte dell’opinione pubblica del paese continua a sembrare che non ci sia nulla di meglio di un referendum abrogativo per riformare il paese e le sue istituzioni politiche, indipendentemente dall’effetto immediato dell’abrogazione. Che cosa tuttavia comporti un tal clima lo si può ben comprendere con un piccolo esperimento mentale, che può funzionare da cartina di tornasole dei propri cattivi umori politici. Non c‘è al giorno d’oggi nessuno, tra quanti metterebbero volentieri mano a riforme costituzionali, che vorrebbe lasciare il Senato così com‘è, e perpetuare un perfetto (o quasi) bicameralismo. Si può star certi d’altra parte, che sottoposta a referendum l’abolizione del Senato della Repubblica, non ci sarebbe quorum che tenga: la nostra Camera Alta sarebbe non riformata ma semplicemente cancellata a furor di popolo. Ora, come giudicare l’impossibilità costituzionale di tenere un referendum simile: come un intollerabile limite all’esercizio diretto della sovranità popolare e alla manifestazione della sua volontà, o come una saggia precauzione del Costituente, con la quale si affida l’iniziativa di riforma costituzionale ai rappresentanti del popolo, e non al popolo stesso? È ragionevole pensare che la seconda risposta sia quella giusta. È allora evidente che la vox populi che si esprime nel referendum non è affatto, almeno nelle intenzioni del Costituente, la strada principale per costruire un’equilibrata architettura istituzionale. Ed è evidente pure che l’argomento per cui la classe politica è incapace di riformare se stessa e dunque va surrogata con altri, più diretti mezzi è sostanzialmente fuori dalle previsioni costituzionali, che invece proprio a quella classe politica si rivolgono.
Ma la terza e più lampante di tutte le evidenze, qualunque cosa si pensi del quorum, della democrazia diretta e dell’esito referendario che ci attende, è che non possono essere i partiti medesimi, cioè quelli che siedono in Parlamento, votano in Commissione, votano in Aula, a sposare l’ebbrezza del brivido referendario. Non però perché sono un’irreformabile Casta, questa è una sciocchezza che i padri costituenti non hanno mai minimamente pensato – e non pensandola hanno appunto lasciato a loro il compito di riformare la Costituzione – ma perché svolgono una funzione squisitamente rappresentativa nelle istituzioni della Repubblica. E invece da un bel po’ di tempo in qua i partiti hanno sostanzialmente rinunciato a difendere la loro funzione, preferendo vellicare gli umori del paese, e finendo con l’adottare (in forme spesso largamente fittizie, come nel caso di primarie prive dello spirito delle primarie) metodi che ne svuotano il senso e ne destrutturano le forme.
Col che restano orribilmente a metà del guado: incapaci di transitare nella terza repubblica, incapaci di tornare nella prima; incapaci di difendere il proprio ruolo, incapaci di esercitarlo.
Se poi si vuole davvero superarlo, questo guado, delle due l’una. O si torna alla chiacchierata di Vidal col Presidente Kennedy e si rileggono i dibattiti dei padri costituenti americani, e si scopre per esempio che Thomas Jefferson, il primo referendario – si direbbe – della storia costituzionale democratica, pensava inascoltato che bisognasse rifare daccapo la costituzione ogni vent’anni, ad ogni cambio di generazione; oppure si torna ai dibattiti dei nostri padri costituenti, e si rinuncia perciò a un bel po’ di retorica referendaria, smettendo soprattutto di vergognarsi di essere i partiti della repubblica: prima, seconda o terza poco importa.
Si imbocca la strada principale, insomma, e la si fa finita con la scorciatoie.