La destra culturale

Domani uscirà in libreria un piccolo esempio di battaglia politico-culturale: “In alto a destra”. Un libro che sembra fatto apposta per attirarsi le solite, facili e non benevole ironie – quando va bene – che accompagnano qualsiasi iniziativa venga da quel gruppo di politici e intellettuali che si muove attorno a Gianfranco Fini, da parte dei più accesi e acritici sostenitori di Silvio Berlusconi. E non solo. Dal nome del curatore (Giuliano Compagno, scelto per il compito a bella posta), a quello dell’editore (Coniglio), fino al gusto un po’ goliardico della provocazione che caratterizza tutto il libro (già che c’erano, per l’uscita, potevano aspettare altri tre giorni e fare il 25 luglio), tutto, insomma, lascia pensare che gli autori, più che di gloria, siano in cerca di rogne. E già questo, in una stagione politica segnata dall’ansia dell’unanimismo (da parte dei leader) e dal desiderio di compiacere e di farsi cooptare (da parte di tutti gli altri), basterebbe a farceli sentire, non diciamo fratelli, questo no – e men che meno compagni, ci mancherebbe – ma nostri simili, almeno un pochino, sì.
Trattandosi della semplice raccolta di una serie di articoli apparsi sul Secolo d’Italia, sul sito internet della fondazione Fare Futuro e sul bimestrale Charta minuta nel corso degli ultimi tre anni, sarebbe fin troppo facile fare le pulci a quelli che restano comunque scritti d’occasione, provocazioni culturali, interventi polemici legati al momento in cui sono stati scritti. Ma si mancherebbe il punto. Si finirebbe cioè per non vedere il senso dell’operazione, come sembrano non vederla coloro che a sinistra li vezzeggiano maldestramente oppure li liquidano con sufficienza, ma sempre e comunque sulla base di un calcolo meschino, miope e riduttivo.
Il senso dell’operazione sta proprio nella costruzione e nell’attività di tanti diversi centri di elaborazione, discussione e diffusione di un pensiero politico, non per caso primi bersagli di un certo fanatismo berlusconiano (nel Pdl e soprattutto nei giornali di area), e del fanatismo non meno fervido e cieco di tanti berlusconiani inconsapevoli (a sinistra). Ma è proprio lì, nel tentativo di riaprire lo spazio e di riaffermare la legittimità del dibattito interno nella cultura politica del paese, prima ancora che nel Popolo della libertà, che sta il valore dell’operazione promossa da Fini. Nel tentativo di ritornare a fondare l’iniziativa politica sulla battaglia delle idee, e pertanto, se non si vuole solamente fare ammuina, innanzi tutto nella battaglia interna: dentro il proprio mondo, il propro schieramento e il proprio partito. Prima ancora che in un’essenziale battaglia per la democrazia interna nel Pdl, il “valore universale” delll’iniziativa dei finiani sta qui, nella rottura di questo tabù, un blocco freudiano che da quasi vent’anni annichilisce la possbilità stessa di uno sviluppo democratico e civile della nostra vita politica. Sta nel gesto più anticonformista che fosse possibile immaginare dentro la cappa opprimente di questa Seconda Repubblica a trazione berlusconiana: tornare a fare politica attraverso la cultura, e cultura attraverso la politica. Riconquistare lo spazio minimo di agibilità per un pensiero politico che in questi anni è stato progressivamente espulso dalla sfera pubblica e da qualsiasi contatto con la vita civile, attraverso l’ingannevole e interessata predicazione, di origine finanziaria e confindustriale, sui confini inviolabili e la sacrale autonomia della società, dell’economia e della cultura. In questo modo la politica è stata relegata ai margini della vita stessa, ridotta a sottosistema funzionale delle esigenze di una libera società civile del tutto immaginaria, che altro non era che la copertura ideologica delle necessità e del desiderio di onnipotenza del capitale finanziario. Finché questo non è rimasto il solo padrone del campo, con i suoi mezzi di comunicazione di massa, non soltanto in Italia, una volta sbaraccati partiti, sindacati e ogni altra forma di autonoma organizzazione di una società civile realmente libera.
Il fatto che il primo e più forte moto di ribellione a questa costruzione ideologica venga da Gianfranco Fini, dagli ex missini e dal cuore dello schieramento berlusconiano è certamente un segno dei tempi. Molto meno significativa e interessante sarebbe invece la ricerca di tutte le dichiarazioni e le scelte di segno contrario venute da Fini o dai suoi sostenitori in passato. La contraddizione che ci interessa è piuttosto quella di oggi, che è già abbastanza stridente, tra il senso dell’operazione così come l’abbiamo appena interpretato, a partire dall’esigenza di ridare all’iniziativa politica un ancoraggio teorico, e il contenuto concreto di questa elaborazione. Paradossalmente, è come se per uscire dal berlusconismo la destra italiana dovesse ripartire proprio da lì dove era rimasta prima che l’arrivo di Silvio Berlusconi la travolgesse (non senza portarle significativi benefici, s’intende). E cioè dal cuore degli anni Novanta.
Basta scorrere il libro: dall’idea di una “destra dei diritti” alla retorica di matrice confindustriale sulle caste e sulla meritocrazia, fino al modo subalterno (e di identica matrice) in cui viene declinato il tema del tramonto delle ideologie e dell’insignificanza delle stesse categorie di destra e sinistra. Categorie che si potrebbero legittimamente criticare perché insufficienti, povere e puramente relative; di cui si potrebbe contestare il diffuso feticismo, teso a ridurre l’intero spettro politico a una bipartizione forzosa e innaturale, sul modello anglosassone, contro la stessa storia d’Italia; di cui si potrebbe dire insomma che peccano di poco, non certo di troppo. Altrimenti, il rischio è di tornare dritti dritti nel ghetto da cui si tentava di uscire, che non è quello degli ex fascisti, nell’Italia di oggi. E’ quello della politica.
Ma forse a questo proposito si può essere più semplici e più chiari. Per stare all’attualità, se la battaglia contro l’invadenza della politica e dello stato si risolve nel distruggere l’Eni o le Ferrovie dello stato in nome dei diritti del cittadino-consumatore, a tutto beneficio di qualche multinazionale straniera nel primo caso e di Luca di Montezemolo e Diego Della Valle nel secondo (per il bene della concorrenza sulle tratte ferroviarie ad Alta Velocità, cioè le uniche che garantiscono soddisfacenti margini di utile, s’intende), ci dispiace, ma non riusciamo a vedere in questo una grande innovazione politica e culturale: l’esito di tante privatizzazioni condotte dai governi di centrosinistra negli anni Novanta è ancora sotto i nostri occhi. Abbiamo già dato. E se oggi contestiamo come ingannevole la retorica liberista non è solo, sul piano dei principi, per ragioni di giustizia. Ma innanzi tutto, sul piano dei risultati concreti, per ragioni di interesse nazionale. E proprio ora che la sinistra sembra si stia finalmente, timidamente affrancando da quelle false ricette (in compagnia del resto del mondo, peraltro), pensiamo sarebbe un peccato, oltre che una notevole contraddizione con le stesse premesse della sua iniziativa, se fosse la destra che viene dal Movimento sociale a riscoprirle.