Ci voleva Napolitano

Ci voleva il presidente della Repubblica, l’unico che dallo scontro attorno alla Fiat avrebbe avuto tutte le ragioni per chiamarsi fuori. “Credo che nessuno possa negare che esiste un problema di bassa produttività nel lavoro – ha dichiarato ieri Giorgio Napolitano – però non è una questione legata esclusivamente al rendimento lavorativo delle maestranze. La produttività dipende in larga misura anche dalla innovazione tecnologica, dalle scelte di organizzazione del lavoro…”. Parole chiare e inconfutabili. Seguite da un auspicio non meno significativo, e cioè che per quanto attiene alle relazioni industriali “si trovi un modulo più costruttivo di discussione”. Ci voleva il presidente della Repubblica, per ascoltare parole così chiare e allo stesso tempo così misurate, di fronte ai contratti di Pomigliano e di Mirafiori, di fronte alla strategia di Sergio Marchionne e alle sue evidenti conseguenze politiche. Conseguenze ormai evidenti a tutti, al presidente del Consiglio come ai suoi ministri, ad Antonio Di Pietro come a Nichi Vendola, ai giornali di centrodestra come a quelli della Fiat (o forse oggi dovremmo dire: compresi quelli della Fiat?). A tutti, insomma, tranne il Partito democratico, che sull’argomento si è mantenuto sin dall’inizio il più defilato possibile: prima, dinanzi all’accordo di Pomigliano, spiegando che l’unica cosa che contava era che non divenisse un modello; e ora che quel modello è stato puntualmente applicato anche a Mirafiori, spiegando che va bene l’accordo ma non va bene l’esclusione dei sindacati non firmatari prevista dall’accordo stesso.
E’ il mondo alla rovescia: i politici discutono del merito degli accordi come se fossero sindacalisti, mentre i sindacalisti si mettono a fare politica. Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, irrigidisce le sue posizioni e se ne va in giro a fare incontri con i leader dell’opposizione, invece che con le controparti, neanche l’avessero eletto presidente della Puglia. Il presidente della Puglia in carica, Nichi Vendola, continua frattanto la sua interminabile tournée intercontinentale (come dimenticare il recente viaggio negli Stati Uniti?). Antonio Di Pietro, da parte sua, lo marca sempre più stretto: in attesa di darsi anche lui alla poesia, parla già come Toni Negri.
Contrariamente all’antico adagio marxista, siamo alla farsa che contiene in sé la tragedia. La tragedia di un mondo del lavoro che rischia di rimanere senza rappresentanza, ostaggio di improbabili demagoghi quando va bene, e di pericolosi estremisti quando va male. Ed è anche per evitare questa deriva, di cui non sembrano minimamente consapevoli gli irresponsabili che ora, dal governo come dai grandi giornali, inneggiano giubilanti al decisionismo del manager dei due mondi, che il Partito democratico dovrebbe battere un colpo. Da Pier Luigi Bersani a Franco Marini, da Massimo D’Alema a Piero Fassino, la sfilza di interventi comparsi in questi giorni sulla stampa non lascia però spazio a equivoci: da questo orecchio i dirigenti del Pd non ci vogliono sentire, attestati come sono su una posizione debolissima, praticamente impercettibile.
Diciamolo chiaramente: se si lascia campo libero oggi, dinanzi alla battaglia decisiva, nessuno può illudersi di vincere la guerra domani. Quale sia la posta in gioco lo ha spiegato efficacemente Paolo Mieli, in una recente quanto istruttiva intervista al Foglio. L’ex direttore del Corriere della sera ha ricordato gli storici legami della famiglia Agnelli con gli Stati Uniti e con la politica americana, a cominciare dall’amicizia di Gianni Agnelli con Henry Kissinger, ma soprattutto ha dipinto un quadro da cui la Fiat emerge come un potente fattore di modernizzazione, intesa naturalmente come americanizzazione, dell’Italia. La “sfida” lanciata da Marchionne sarebbe dunque solo l’ultimo esempio di questa missione storica della casa di Torino. Una sfida che secondo Mieli non riguarda solamente le relazioni industriali, ma l’intero assetto politico, economico e sociale del paese. La sfida del “modello americano” per i diritti del lavoro e per lo stato sociale, per l’Italia e non solo. Marchionne sarebbe infatti il “bandolo” da tirare per affrontare nientemeno che la “crisi europea”, per abbracciare finalmente anche noi il sogno americano. E pazienza se nel frattempo quel sogno si è trasformato in un incubo economico e sociale, per tutti i paesi che ne hanno applicato il perverso modello di crescita a debito, incentrato sulla finanza e sul mito della deregulation.
E’ il modello americano, bellezza. Il resto verrà di conseguenza. In gran parte, anzi, è già venuto: il populismo berlusconiano, la torsione plebiscitaria di questa Seconda Repubblica, i meccanismi elettorali e istituzionali che hanno prodotto al tempo stesso un abnorme accentramento di potere (il presidenzialismo di fatto) e una sostanziale paralisi politico-istituzionale. Tutto questo è già venuto e la linea Marchionne ne è solo l’ultimo frutto.
Incomprensibile è piuttosto la remissività di Bersani: l’unica linea politica compatibile con tutto questo, per il Partito democratico, è infatti la linea di Walter Veltroni, che non per nulla a gennaio riunirà i suoi sostenitori al Lingotto di Torino. E’ la linea che proprio oggi lo stesso Veltroni rivendica orgogliosamente dalle colonne della Stampa, sostenendo che tutti abbiano nientemeno che “il diritto-dovere di rispondere un chiaro Sì alle richieste di Marchionne di modernizzazione delle relazioni sindacali italiane”. Ed è anche la linea che lo ha portato a perdere cinque elezioni di fila, consegnando a Silvio Berlusconi la più grande maggioranza di sempre. Una maggioranza che solo dopo le dimissioni di Veltroni da segretario del Pd e l’accantonamento della sua folle preclusione nei confronti di ogni alleanza, come di ogni idea di movimento e manovra politica, si era finalmente cominciata a incrinare.
Prima della riunione del Lingotto, sempre a gennaio, è prevista però un’importante riunione della direzione. Al momento, appare scontato che ne esca confermata la linea di sostanziale non opposizione alla strategia di Marchionne. Magari per essere più liberi di dividersi sulla questione delle primarie, senza capire che le due cose si tengono più che mai. Anzi, da questo punto di vista, la debolezza della risposta a Marchionne non fa semplicemente il gioco di Vendola e di tutti coloro che puntano a lucrare spazio dalle difficoltà del Pd, ma indebolisce strutturalmente qualsiasi tentativo dei democratici di uscire dall’angolo, perché finisce per spoliticizzarlo. Se il Pd vuole azzerare i risultati dell’ultimo congresso e tornare alla casella di partenza, questa è senza dubbio la strada più rapida e più sicura per arrivarci.
La direzione del Pd è fissata per il 13 gennaio. Nel caso in cui lì dentro ci fosse ancora qualcuno che avesse intenzione di dare una battaglia politica, gli consiglieremmo di affrettarsi.