Le partite decisive

La calda estate del 2012, fra Europeo di calcio e podi olimpici, è apparsa come una fedele riproposizioni di ben più serie sfide economiche. Il girone eliminatorio dei (P)IGS, il classico Germania-Grecia fino alla finale Italia-Spagna (gli lasciamo la coppa e falliscono loro?). E poi le Olimpiadi, con gli ori dell’Asia e l’Italia che non corre più, naviga in cattive acque ed è ormai capace di difendersi solo con qualche fioretto (ai santi Mario e Mario). Tutto coerente con l’immaginario giornalistico degli ultimi tempi: spread contro spread, quanto ti cresce il Pil, fino al grandioso “Abbiamo fatto un avanzo primario grosso così” (da mimare, ovviamente, con le mani) pronunciato – dice la leggenda – da un importante esponente della stagione del governo Prodi. In questo repertorio da macho oeconomicus, adoperato dai media per misurare quale economia abbia le dotazioni migliori per uscire dalla crisi, manca qualsiasi riferimento alla statistica delle partite correnti con l’estero. Ancora poco tempo fa, nel presentare la legge di stabilità, il nostro ministro dell’Economia spiegava come il pareggio di bilancio strutturale che si registrerà nel 2013 sarà uno scudo sufficiente per portarci fuori dalla crisi.

L’attenzione ossessiva per le statistiche fiscali e la negligenza riservata alle partite correnti non sono giustificate da alcun fondamento economico, se si considera che la crisi dell’euro è ormai letta anche dalle principali istituzioni europee e internazionali come una crisi di bilancia dei pagamenti in un regime di cambi fissi. Un valore positivo delle partite correnti indica che un Paese ha generato più reddito di quanto ne abbia speso attraverso gli scambi con il resto del mondo, vale a dire grossolanamente, dalla vendita di merci, di servizi turistici e non, e dai redditi ricavati dal capitale e dal lavoro impiegati all’estero. Un altro modo di guardare alla faccenda è che un deficit significa che il Paese nel suo complesso (settore pubblico e privato) si indebita con il resto del mondo, in quanto consuma al di sopra della propria capacità di generare reddito. Di conseguenza, un Paese che registra un deficit pubblico ma che allo stesso tempo può vantare un più corposo attivo del settore privato, non è attaccabile dalla speculazione sui propri titoli di Stato: il reddito nazionale è superiore al consumo e dunque il deficit pubblico può essere assorbito dal paese senza ricorrere a capitali stranieri.

E’ questo il caso dell’Irlanda. Nonostante la suggestiva teoria che individua nelle multinazionali e nelle banche anglosassoni i responsabili del calo dello spread irlandese o lo attribuisce alla diligenza del governo di Dublino ad eseguire le politiche di austerità imposte dalla troika Ue-Bce-Fmi, la grande inversione delle partite correnti negli anni 2008-2011 (da -5,6% a +0,7% del Pil – dati eurostat) è sufficiente a spiegare la progressiva emancipazione del paese dai mercati finanziari internazionali. Ancora più eclatante è il caso del Giappone, dove il debito più alto del mondo (oltre il 200% del Pil) e continui deficit pubblici sono assorbibili dal risparmio nazionale grazie ai surplus trentennali delle partite correnti.

L’Italia, invece, ha ancora della strada da fare. Il suo deficit è peggiorato negli anni della crisi, passando dal -1.3% del Pil nel 2007 al -3.2% nel 2011. Nell’ultimo anno, tuttavia, si è invertita la rotta. Rispetto a un anno fa il deficit si è più che dimezzato da 62 a 30 miliardi di euro (dati Banca d’Italia), registrando nel solo mese di giugno il primo surplus di partite correnti degli ultimi otto anni. Il risultato però non deve farci festeggiare troppo. Esso è dovuto in massima parte al crollo delle importazioni e solo in piccola parte alla positiva dinamica delle esportazioni (provenienti, fra l’altro, dai settori più vituperati dell’economia italiana: prodotti petroliferi raffinati, macchinari e componenti in metallo, vedi anche Ilva). Continuano invece a pesare come macigni il settore dei trasporti e i servizi bancari e assicurativi (-5 miliardi) e soprattutto il pagamento di dividendi verso l’estero (-10 miliardi), in gran parte dovuto alla quota di debito pubblico (circa il 30%) in mano agli investitori esteri.

Insomma, da un lato, se il trend di aggiustamento si confermerà nell’arco del 2012, agli inizi del prossimo anno l’Italia potrebbe raggiungere il pareggio dei propri conti con l’estero come non accadeva dal lontano 2001. Dall’altro, c’è la consapevolezza che si tratterà di una correzione regressiva. Le importazioni crollano perché precipitano i consumi interni, mentre non si sta facendo niente in tema di politiche industriali per l’export e di mobilitazione dei risparmi privati improduttivi. Il riequilibrio della bilancia commerciale sarà così ottenuto nel modo più iniquo possibile dal punto di vista sociale, con disoccupazione crescente e tassazione regressiva (Iva), con un sistema fiscale che ancora favorisce la rendita finanziaria a discapito del lavoro e della piccola imprenditoria. L’Italia arriverà al pareggio delle partite correnti e sfuggirà forse alla speculazione finanziaria internazionale, ma vi giungerà impoverita e con una classe media in sofferenza. Saremo allora poveri ma belli, e felici di avercela fatta con un avanzo primario grosso così.