L’Imu dell’imperatore Traiano

Nelle sale del Museo Nazionale delle Terme di Diocleziano è esposta una lastra di bronzo proveniente dai dintorni di Benevento che contiene un’iscrizione assai particolare. Vi sono registrati alcuni prestiti ipotecari concessi a piccoli e medi proprietari terrieri. L’iscrizione è datata al 101 dopo Cristo, ai tempi dell’imperatore Traiano.

Siamo all’inizio del II secolo, l’impero ha raggiunto la massima estensione della sua storia e nel suo complesso è certamente ricco ed economicamente dinamico. Roma è una grande metropoli, la più popolosa del mondo antico, in cui però masse sempre maggiori di cittadini dipendono dalle distribuzioni gratuite di grano che gli imperatori elargiscono regolarmente. Un’intera struttura amministrativa, l’annona, la seconda più grande dello stato, è destinata esclusivamente a questo: comprare dalle zone più produttive e ricche – principalmente dall’Egitto – enormi quantità di grano, per distribuirle a pioggia alla plebe urbana. Il resto dell’Italia, infatti, soffre una crisi di produzione senza precedenti. Con la fine dell’economia schiavile e con l’allargamento del mercato a tutto il Mediterraneo ormai romanizzato, l’agricoltura è diventata poco redditizia. Le province che fino a cinquant’anni prima erano invase dalle esportazioni italiche hanno imparato a produrre da sé il vino e l’olio, e sono loro, ormai, a esportare in Italia. Risultato: intere regioni un tempo ricche di vigne e di oliveti sono ormai abbandonate a se stesse; una massa sempre maggiore di piccoli proprietari, contadini e coloni si è impoverita o ha abbandonato la propria attività. La crisi di produzione si è trasformata ben presto in una crisi demografica, con ricadute a catena sulla produzione. Il più classico dei circoli viziosi.

Neanche le finanze statali se la passano benissimo. Il peso dell’esercito assorbe buona parte delle entrate fiscali con le sue centinaia di migliaia stipendi da pagare ai militari; la burocrazia elefantiaca e la corruzione dilagante fanno il resto. D’altra parte nuove tasse non se ne possono mettere più: i cittadini romani sono vessati da decine di imposte e balzelli, la centesima venalium, cioè l’imposta sulle transazioni in denaro; la vicesima hereditatium, l’odiata tassa di successione che Traiano ha dovuto reintrodurre per far quadrare i conti dopo che Nerva l’aveva abolita; la vicesima libertatis, il 5% sulla liberazione degli schiavi; perfino un’imposta straordinaria sulla prostituzione. Gli arretrati delle imposte non riscosse – in pratica l’evasione fiscale – già da soli sono il triplo delle normali entrate tributarie dell’epoca di Augusto. La situazione è tale che perfino nel panegirico ufficiale all’imperatore, Plinio il Giovane ricorda a Traiano la gravità dell’imposizione fiscale. In queste condizioni rilanciare l’economia italica e far quadrare i conti pubblici appare un’impresa disperata.

Traiano e i suoi amministratori escogitano un sistema ingegnoso e complesso, testimoniato dall’iscrizione del Museo Nazionale Romano: per rilanciare l’agricoltura italiana e per sovvenzionare i giovani delle famiglie indigenti, ai proprietari terrieri delle aree in crisi viene offerto un prestito ipotecario a fondo perduto pari all’8% del valore della loro proprietà; sulla somma prestata i proprietari pagano un interesse annuo del 5% (molto più basso del normale interesse di mercato che si aggira sul 12%). Con gli interessi che incamera dal prestito lo stato finanzia un fondo destinato al sostentamento dei giovani indigenti di quegli stessi territori depressi, in pratica un assegno familiare.

L’intero meccanismo è tramandato come Institutio Alimentaria, esaltato dai contemporanei, celebrato nelle opere d’arte e nelle monete dell’epoca, e copiato tal quale anche in età moderna. In sostanza, i proprietari terrieri ogni anno versano allo stato il 4 per mille (cioè il 5% dell’8%) del valore della loro proprietà. A fronte di ciò ricevono però un capitale che permette loro di finanziare investimenti sul proprio terreno per rilanciare la propria attività. Di più: sono incentivati a farlo; investire quel denaro in migliorie, usarlo per accrescere un poco la produttività è per loro il modo migliore per neutralizzare l’interesse che dovranno pagare. Non una tassa mascherata da prestito, dunque, ma una tassa e un prestito insieme. E come sovrappiù, un surplus per lo stato con cui finanziare una misura di welfare per i giovani meno abbienti. Il vantaggio è triplo: i proprietari ricevono un capitale con cui rilanciare la propria attività, i giovani ricevono un sostentamento, lo stato può sperare di acquistare grano dall’Italia invece che dall’Egitto.

Certo, tutto ciò comporta un investimento iniziale significativo da parte dello stato, ma l’imperatore e i suoi amministratori sanno bene che limitarsi a far pagare le tasse forse risanerà momentaneamente il bilancio dell’impero, ma certo non rilancerà un’economia desertificata. Traiano e i suoi amministratori hanno una visione organica della società oltre che dell’economia: risanare il bilancio è per loro solo metà dell’opera. E hanno una concezione del loro compito tale che nel coinvolgere i proprietari in una politica di ripresa sanno anche chiamarli a contribuire a un programma sociale dello stato. Traiano passerà alla storia come Optimus Princeps. Altri, che si limiteranno a far quadrare i conti, no.