La democrazia dello spread

Ricorre in questi giorni il secondo anniversario dell’ormai celebre lettera della Bce. Una missiva in cui l’istituto di emissione metteva nero su bianco, punto per punto, la lista dei provvedimenti che il governo italiano avrebbe dovuto adottare per cercare di uscire dalla crisi. Al di là del contenuto, colpì soprattutto l’inusualità dello strumento: mai prima di allora, si disse, la Bce aveva inviato una lettera al governo di un paese membro con l’elenco delle cose da fare. In realtà, grazie a un articolo dell’ex-membro del board della Bce Lorenzo Bini Smaghi apparso sul Corriere della Sera di sabato 27 luglio, scopriamo che di inconsueto c’era solo il fatto che il governo italiano avesse deciso prima di lasciarne intuire l’esistenza e successivamente di renderla pubblica. “È prassi – scrive Bini Smaghi – che i governi e le banche centrali si scambino messaggi, anche per via epistolare”. Quella che a prima vista sembra essere una scelta di buon senso, però, assume contorni tutt’altro che rassicuranti se analizzata nell’assetto dell’unione monetaria uscito dal trattato di Maastricht.

Una delle caratteristiche più evidenti dell’attuale struttura istituzionale europea consiste nell’asimmetria esistente fra una politica monetaria totalmente indipendente e centralizzata a Francoforte e una politica fiscale lasciata nelle mani dei singoli governi nazionali. Una scelta che viene solitamente giustificata asserendo che solo una banca centrale indipendente dal potere politico sarebbe in grado di controllare l’inflazione. Anche volendo dare per buona questa spiegazione, essa risulta quantomeno insufficiente. Il rapporto fra banca centrale e governo, lungi dall’essere di reciproca indipendenza, è caratterizzato infatti da una forte interdipendenza.

L’interazione fra autorità monetaria e fiscale è simile alla chicken run di James Dean e Corey Allen in Gioventù bruciata. Per sfidarsi in una prova di coraggio e dimostrare agli amici che l’altro era un codardo, i due ragazzi si lanciavano a bordo delle loro automobili verso il dirupo. Se uno sterzava e l’altro continuava per un tratto di strada maggiore, il primo avrebbe fatto la figura del pollo, mentre il secondo avrebbe guadagnato il rispetto degli amici. Se entrambi avessero continuato sulla strada senza sterzare, sarebbero finiti nel burrone. L’unico modo per evitare che uno dei due morisse o facesse la figura del codardo sarebbe stato un accordo ex-ante: decidere di sterzare contemporaneamente prima del burrone. Ma questo accordo non sarebbe stato stabile perché ciascuno dei due giovani avrebbe avuto la tendenza a non rispettare il patto e a percorrere quel metro in più sufficiente a far apparire l’altro come un pollo.

I rapporti banca centrale e governo non sono così estremi, ma la dinamica è la stessa. La scelta per ciascuno in questo caso non è fra sterzare o proseguire, ma più modestamente fra politiche economiche espansive e restrittive. L’interazione fra governi e banca centrale sarebbe molto semplice se entrambi avessero gli stessi interessi. In tal caso, infatti, entrambi farebbero la stessa scelta: o politiche espansive o politiche restrittive. Purtroppo non è detto che questo accada. Può infatti succedere che la presenza di un conflitto di interessi conduca a risultati inefficienti. La banca centrale – per sua natura e per statuto – è portata a condurre politiche monetarie prudenti per evitare che i prezzi alzino troppo la testa. Al contrario, i governi nazionali – pur in presenza dei noti vincoli alla finanza pubblica – sono invece spinti a condurre politiche fiscali più espansive, non solo per favorire crescita e occupazione, ma anche per massimizzare la possibilità di venire confermati alle successive elezioni.

Per la presenza di questo conflitto di interessi, un qualsiasi accordo fra governi e banca centrale sulla politica da adottare non sarebbe credibile. Ad esempio, se ci si accordasse per adottare entrambi una politica restrittiva, i governi sarebbero tentati un minuto dopo di mettere in pratica politiche espansive. Il rischio concreto è che banca centrale e governo si trovino così a remare in direzione opposta. È necessario quindi che uno dei due attori di politica economica sia in grado di minacciare credibilmente l’altro, costringendolo ad adottare un certo tipo di politica. L’indipendenza della Bce serve proprio a questo. E l’arma che può usare nei confronti dei governi recalcitranti si chiama “spread” e si concretizza nella scelta della Bce di acquistare o meno i titoli pubblici sui mercati (o direttamente o tramite il sistema bancario). I governi lo sanno e sono costretti a seguire le indicazioni dell’istituto di emissione.

Questa situazione è quella che in termini tecnici prende il nome di “monetary dominance” e che rende il rapporto fra banca centrale e governo tutt’altro che paritario. Tuttavia, anche se si accetta il fatto che la “monetary dominance” sia una soluzione efficiente per il conflitto di interessi fra autorità monetarie e fiscali quando sono richieste politiche restrittive, non c’è nulla che garantisca che essa sia efficiente quando sono richieste misure di stabilizzazione, come quelle che sarebbero necessarie nel periodo in cui stiamo vivendo. Al contrario, come i fatti si sono incaricati di dimostrare, sembra che la combinazione di austerità e deflazione interna abbia prodotto una delle più lunghe recessioni dell’ultimo secolo, con effetti devastanti – e probabilmente strutturali – su produzione, redditi e occupazione.

La “monetary dominance” ha poi prodotto una preoccupante alterazione del tradizionale meccanismo di sanzione politica del malgoverno. Oggi chi subisce le conseguenze negative di decisioni politiche sbagliate ha un margine di autonomia fortemente ridotto dalle scelte di un organismo non democraticamente eletto, che però non viene mai sanzionato. La motivazione solitamente addotta per giustificare questa preoccupante torsione tecnocratica è che questa sia una componente necessaria per somministrare ai paesi in difficoltà quelle politiche economiche che altrimenti – seguendo la via maestra del metodo democratico – non sarebbe possibile attuare.

Questa filosofia suscita però alcune domande. La prima è chi debba valutare se e quando la via democratica sia così ostruita da giustificare il fatto che alcune scelte pubbliche dei rappresentanti eletti dai cittadini siano sottoposte a vincoli e condizionamenti desunti dalle convinzioni politico-economiche di esperti o tecnici non eletti da nessuno. La seconda è chi o cosa potrebbe limitare l’azione dei tecnici, qualora non si dimostrassero all’altezza del compito o cadessero nella tentazioni di mettere in difficoltà governi a loro, per qualsiasi ragione, sgraditi. La terza è fino a quando un sistema democratico possa tollerare una situazione simile. Se anche fosse vero – come sostengono alcuni – che un dittatore benevolo è meglio di una democrazia bloccata, nulla può garantire a priori che il dittatore resti benevolo a lungo. Si viene a replicare così lo stesso problema che si ha con la politica, ma con la differenza che per i politici prima o poi arriva almeno il giudizio degli elettori.