La necessità, richiamata dal segretario del Pd, di un piano per il lavoro che contrasti precarietà e disoccupazione è largamente condivisa. Come condivisibile è l’enfasi con cui il presidente del Consiglio ha definito quello della disoccupazione giovanile l’“incubo nazionale”. Tuttavia sia le ricette che dovrebbero comporre il cosiddetto job act (sempre che quanto filtrato in queste ore corrisponda al progetto degli estensori), sia le misure varate dal governo con l’ultima legge di stabilità, destano diverse perplessità. Le une come le altre sembrano ispirarsi alle letture maggiormente in voga in questi anni, che spiegano le ragioni della drammatica e apparentemente irreversibile crisi occupazionale del nostro paese con l’eccessiva tassazione su lavoro e imprese da un lato, dall’altro con la presunta complessità/rigidità del mercato del lavoro. Tagliare il cuneo fiscale – come ha cominciato a fare il governo – e rendere le regole del lavoro meno macchinose sarebbero dunque le soluzioni a buona parte dei nostri problemi.

Purtroppo non è così, e in nessuno dei due casi la dinamica occupazionale registrerà lo shock positivo auspicato. Il che – ovviamente – non significa che le misure in questione siano prive di qualsiasi utilità, ma che – dovendo scegliere – non sono la priorità. Per esempio, l’intervento sul cuneo fiscale previsto in legge di stabilità, a causa della scarsità delle risorse impegnate, non avrà l’effetto sperato nemmeno sul ciclo dei consumi: chi si ritroverà qualche euro in più in busta paga, verosimilmente, più che spenderlo lo metterà a risparmio. Pur nella consapevolezza dell’eccesso di pressione fiscale che caratterizza il nostro paese, in mancanza delle risorse necessarie a produrne una riduzione consistente e percepibile, sarebbe stato preferibile utilizzare diversamente le risorse disponibili: la riduzione minima prevista dal governo rischia di essere un grave spreco, motivato più dall’esigenza propagandistica di rivendicare il segno meno sulla tassazione che da una concreta attenzione all’economia reale. Anche l’idea – non certo nuova – che sembra ispirare il “job act”, secondo cui sarebbe sufficiente agire sulle regole del mercato del lavoro e sulla formazione per creare occupazione e ridurre il gap occupazionale fra giovani e adulti, nonostante l’indubbio successo di cui ha goduto nel dibattito pubblico di questo ventennio, è del tutto priva di riscontri fattuali: la maggior flessibilità alla lunga non ha prodotto maggiore occupazione e lo svantaggio relativo dei giovani rispetto agli adulti in termini di tasso di disoccupazione, invece di diminuire, è addirittura aumentato [1].

Naturalmente il fatto che riformare il mercato del lavoro non crei occupazione non significa che sia sbagliato cercare di intervenire per contrastare la precarietà: la discontinuità  lavorativa generata dalla reiterazione di contratti a tempo determinato è evidentemente un problema drammatico. Lo è dal punto di vista economico, perché dare ai lavoratori una prospettiva di breve periodo significa non investire in capitale umano. Significa impedire la crescita della produttività del lavoro, e questo è un problema macroeconomico molto grave che finisce per minare la competitività delle nostre aziende sui mercati internazionali. Ma lo è anche dal punto di vista sociale. La tesi tuttora in voga secondo cui un lavoro precario sarebbe meglio di nessun lavoro, perché una volta dentro il mercato diventa più facile passare a impieghi più stabili, è smentita da quasi tutte le ricerche più recenti: quanto più si passa da un lavoro atipico all’altro, tanto maggiori diventano le probabilità che scatti la cosiddetta “trappola della precarietà”, ovvero la permanenza in uno stato di discontinuità lavorativa. Paradossalmente la scelta di aspettare l’occasione di un buon lavoro standosene al riparo del guscio familiare può essere di gran lunga più fruttuosa della scelta di accettare qualunque lavoro. Le implicazioni in termini di equità sociale sono evidenti: le famiglie a basso reddito che non possono permettersi di mantenere i loro membri impegnati nella ricerca di un buon lavoro subiranno una discriminazione e ai loro figli mancheranno le opportunità di trovare buoni impieghi.

L’ipotesi di contratto di inserimento a tempo indeterminato, se da una lato va nella direzione giusta, dall’altro lascia almeno due fronti aperti. In primo luogo, quello che sarebbe il vero vantaggio per le imprese, cioè la copertura statale dei contributi per i primi tre anni, non risolve il pericolo di ricircolo dei lavoratori, che anzi potrebbe riproporsi in nuove forme. Va per questo riaffermato con forza che l’obiettivo, unico antidoto alla precarietà , deve essere la definitiva stabilizzazione. Quest’ultima può anche seguire un periodo di prova lungo (i 3 anni proposti sembrano ricalcare quelli di un apprendistato), ma deve essere resa comparabilmente più vantaggiosa per l’impresa rispetto alla sua sostituzione con una nuova assunzione nel corso del triennio (ad esempio attraverso un credito di imposta o altri meccanismi premiali); facendo il ragionamento inverso, l’assunzione di nuovi candidati in prova potrebbe al contrario essere vincolata alla stabilizzazione di almeno una parte di quelli precedenti. Se il vero incentivo arrivasse con la stabilizzazione (o con la sua conferma o con il suo mancato ritiro, se si intendesse anticiparne gli effetti con valenza anticiclica), invece che all’origine del rapporto di lavoro, il ricorso stesso al licenziamento ne risulterebbe scoraggiato.

Secondo le anticipazioni sulla proposta di Renzi, il contratto di inserimento a tempo indeterminato verrebbe accompagnato da una indennità di disocupazione e dall’obbligo alla formazione per chi perda il lavoro. L’indennità di disoccupazione, sembra di capire, dovrebbe riassorbire altri ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione in deroga. Che una riforma degli ammortizzatori sia indispensabile è evidente a tutti, ma desta un certo stupore che si immagini di sostituire quelli attuali con un sussidio di disoccupazione universale a parità di risorse. Quand’anche fosse possibile trovarne molte di più di quante oggi disponibili (e non lo è), sarebbe preferibile far pendere la bilancia più dalla parte della creazione di nuovo lavoro che su misure di questa natura che, in mancanza di una strategia aggressiva sul rilancio della crescita, finirebbero per divenire un pozzo senza fondo che risucchierebbe ogni risorsa e con esse ogni residua possibilità di rilancio del paese.

Per quanto riguarda l’enfasi posta sulla formazione, la domanda è: formazione per fare cosa? Le parti datoriali, per spiegare le difficoltà  ad assumere, scrivono ormai in ogni rapporto di ostacoli, dal loro punto di vista, di over-education e di scarsa corrispondenza fra studi e competenze richieste. Tutto ciò, ironicamente, in un Paese largamente sotto la media UE come numero assoluto di laureati e diplomati, come qualità  media dell’apprendimento, caratterizzato perfino da un importante tasso di abbandono e di analfabetismo di ritorno. Il problema allora non può che stare innanzitutto nella qualità  delle competenze richieste dal sistema produttivo: una formazione, tanto più obbligatoria, che non si incardini in un aggiornamento complessivo del contenuto del lavoro, rischia di essere solo la riproposizione (e il consolidamento) dell’attuale sistema, contribuendo a mantenere competenze – e salario – schiacciati verso il basso. Viene poi da chiedersi chi debba formare e, a sua volta, sulla base di quali competenze. Va tenuta in conto la grande difformità fra territori e fra soggetti accreditati, ma soprattutto la grave situazione in cui versa il servizio pubblico all’impiego (che dovrebbe essere almeno garanzia di omogeneità  e di conseguimento di standard qualitativi, specie in un sistema universale e obbligatorio).

Nella situazione attuale, è giusto parlare di potenziamento dei CPI soprattutto in questo senso: se si intervenisse solo con un aumento degli impiegati, ad esempio attraverso una mobilità  interna alla PA svincolata dalla effettiva professionalità  di questi operatori, proseguirebbe solo quell’inganno secondo cui il nostro problema sta essenzialmente nella difficoltà  quantitativa di incontro tra domanda e offerta, piuttosto che nella loro qualità. In questo senso vanno impostati anche gli interventi che deriveranno dall’attuazione della Youth Guarantee europea che possono diventare anche l’occasione di una effettiva riforma e di implemento del nostro Servizio civile. Non nel senso della sua trasformazione, come sembra prevedere il “job act”, in servizio obbligatorio, ma come nuova forma di ingresso nel mondo del lavoro, profit e non-profit, attraverso il riconoscimento delle competenze che una simile esperienza può generare. Così da diventare modello di inserimento lavorativo e forma ragionevole di “reddito” di inserimento.

Il “job act” annunciato da Matteo Renzi rischia di cadere nello stesso errore di molti interventi che lo hanno preceduto, per ultimo quello firmato da Elsa Fornero, cioè di camminare sulla testa dei meccanismi che regolano il mercato del lavoro (i contratti), anziché sulle gambe della crescita e così facendo di essere, nella migliore delle ipotesi, inutile. I passi avanti nel contrasto alla precarietà che pure potrebbero essere prodotti dal contratto d’inserimento, rischiano di essere resi assai parziali dal progressivo ulteriore restringimento della platea degli occupati. Se invece davvero vogliamo provare a uscire da una situazione drammatica, è bene innanzitutto liberarci dalle stanche dicotomie garantiti vs non garantiti, padri vs figli. È la crisi ad avere definitivamente spazzato via questa chiave di lettura: non sono state le tutele forti dei padri a rendere precari i figli, ma è stata la precarizzazione dei figli a indebolire le tutele dei padri. La marginalizzazione, lo spreco del capitale umano offerto dalle nuove generazioni e rifiutato da un sistema industriale incapace – per sua responsabilità e per mancanza di indirizzo da parte della politica – di sfruttarlo per competere investendo nell’innovazione, ha finito per trascinare a fondo anche quei presunti ipergarantiti.

Se proviamo a guardare al nuovo paesaggio del lavoro con gli occhi delle vittime della crisi e non con le lenti di qualche giuslavorista apprendista stregone, è evidente che il problema più grande oggi è nella totale negazione dei diritti. Se vogliamo trasformare la precarietà in flessibilità, occorre partire da qui, ragionando su come universalizzare almeno alcuni diritti. Non è più sostenibile la condizione dei cosiddetti atipici, e più in generale dei parasubordinati, che continuano a lavorare senza alcuna garanzia né nel presente, né per il futuro. Per cominciare a restituire dignità al lavoro, occorrerebbe almeno stabilire che ogni tipologia contrattuale debba prevedere la copertura per malattia e maternità, a prescindere dalla durata e dalla retribuzione prevista per la prestazione lavorativa, da accompagnarsi con una rinnovata politica di congedi parentali per incentivare la partecipazione femminile al mondo del lavoro. Una misura che avrebbe un effetto immediato e concreto sulla vita di milioni persone. L’aumento conseguente del costo dei contratti precari, che a regime è persino auspicabile così da rendere meno conveniente il ricorso a queste tipologie contrattuali, potrebbe essere mitigato nella fase di transizione da interventi di sostegno.

Parallelamente a una misura del genere, occorrerebbe immaginare strumenti che garantiscano dal rischio che – come avvenuto in situazioni analoghe – l’aumento dei costi per le imprese finisca per scaricarsi sulla busta paga del lavoratore. Da questo punto di vista si può valutare l’introduzione di un “equo compenso” per tutte quelle professioni non coperte da contrattazione collettiva, affiancato  dalla possibilità  di concertare con i sindacati, i cui sistemi di rappresentanza necessitano evidentemente di un ammodernamento, la possibilità  di definire la retribuzione minima per professionalità omogenee, non su scala nazionale, ma su base territoriale. Ma nessuna delle soluzioni discusse ha senso senza una strategia che agisca dal lato della domanda: come creare lavoro? Ecco l’interrogativo a cui il “job act” deve dare risposta. Il piano per il lavoro è, in quest’ottica, parte decisiva di un robusto piano per la crescita e l’innovazione, che liberi investimenti e indichi chiaramente le vocazioni economiche e industriali da perseguire.

Ammesso e non concesso che la spirale recessiva si interrompa nei prossimi mesi, sembra sempre più evidente che andremo incontro a una ripresa anemica e senza occupazione. Ennesima dimostrazione che le politiche di questi anni e l’equazione rigore=risanamento non hanno funzionato (e non funzioneranno). L’eccessiva disciplina fiscale è risultata dannosa alla crescita e all’occupazione e – quel che è peggio – non è servita nemmeno al risanamento, come dimostra l’esplosione del debito pubblico in questi tre anni di “rigore”. A ben vedere dunque sono proprio i fautori del “rigore” a non volere il risanamento. Occorre recuperare i margini per un piano di investimenti pubblici straordinari, da concentrare in settori strategici che generano un alto tasso di occupazione e un forte stimolo alla crescita (dalla cultura alla ricerca, dalla messa in sicurezza del suolo al turismo, dal terzo settore sociale alle infrastrutture digitali).

Le opzioni per recuperare le risorse necessarie a finanziare il piano straordinario per l’occupazione sono due: agire sulla leva fiscale chiedendo un contributo maggiore a chi ha di più, oppure, rimanendo dentro il vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/pil, recuperare qualche decimale rispetto al 2,5% previsto per il 2014. Così facendo si libererebbero miliardi utili a produrre un vero shock occupazionale, che avrebbe il non trascurabile effetto di agire sulla crescita e di conseguenza di dare un contributo ben più efficace delle politiche di austerità alla riduzione del debito pubblico. L’obiettivo è archiviare la sequenza “risanamento-crescita-occupazione” e sostituirla con la più efficace “occupazione-crescita-risanamento”. Nella situazione drammatica del paese, un “job act” che non potesse rivendicare un impatto positivo sul tasso di occupazione rischierebbe di essere un boomerang, per l’evidente “spread” tra attese generate e risultati ottenuti. Ma per creare lavoro occorre rompere le barriere ideologiche e superare i tabù che in questo ventennio hanno impedito di considerare quella degli investimenti pubblici diretti a generare occupazione una opzione possibile: nell’Italia di oggi è l’unica opzione possibile.

Farlo vorrebbe dire “cambiare verso”. Ma per davvero.

 


[1] Il rapporto tra il tasso di disoccupazione dei giovani (15-24) e quello degli adulti (25-54) è l’indicatore utilizzato per mostrare lo svantaggio relativo dei giovani. Nell’UE  questo indice era pari a 2,3 nel 2000, il che significa per i giovani europei un rischio di disoccupazione di circa due volte quello degli adulti; in Italia  era pari a 3,5, quindi il rischio di disoccupazione per i giovani era oltre tre volte quello degli adulti. Nell’analisi dell’Oecd (Scarpetta et al. 2010, pp. 11-12), che riporta l’indicatore per tutti i paesi nel 2008, si osserva un valore pari a 2,8 in media nell’area Oecd e nell’UE15, ma con significative differenze tra i vari paesi. Fatta eccezione per la Germania (con 1,5), l’indicatore era superiore a 2 in tutti i paesi, per la maggioranza con valori compresi tra 2 e 3. Solo in 9 paesi (su 32), tra cui l’Italia (con 3,7), l’indicatore era superiore a 3. Inoltre, sia per l’Italia sia per la media UE si rileva una tendenza all’aumento dell’indicatore nel decennio che precede la crisi. Quindi se l’obiettivo dell’introduzione di contratti “precari” era quello di ridurre il rischio di un giovane di restare disoccupato rispetto a quello di un adulto, la missione può dirsi fallita.