La scuola non serve a vincere le olimpiadi

Le istituzioni dello sport italiano, ciclicamente, provano a interrogarsi sul loro ruolo. In questa occasione lo spunto è venuto dall’esito non entusiasmante – secondo la scala dei metalli preziosi – della spedizione azzurra ai giochi olimpici invernali di Sochi. Il presidente del Coni Giovanni Malagò ha snocciolato cifre, raffronti, riflessioni sul valore dei quarti posti e propositi di miglioramento del medagliere invernale da qui a quattro anni. Ma all’interno di questa dettagliata disamina, il patron del Circolo canottieri Aniene inserisce un concetto che a nostro avviso esprime meglio di ogni statistica quanto sia ancora oggi antiquata l’idea di sport prevalente ai vertici del Coni (e non solo). È la scuola italiana, secondo Malagò, a dover giocare in prospettiva un ruolo importante nel miglioramento del computo delle medaglie: “È la cosa su cui mi concentrerò al rientro. Con il nuovo ministro Giannini abbiamo già in conto di ricominciare da qui perché non c’è il reclutamento, che dovrebbe partire proprio dalle scuole”. Le medaglie possono essere poche o molte “ma si deve leggere cosa c’è sotto”.

Ecco, bene: cosa c’è sotto? C’è una scuola che, secondo la visione del numero uno del Coni, dovrebbe diventare il luogo di una cultura sportiva dove l’allargamento della base è pensato ai fini del “reclutamento” (che brutta parola) dei futuri campioni. Ma siamo sicuri che sia compito della scuola fornire la base di “reclutamento” dello sport di alta prestazione? La scuola è un tempio, laico, e dovrebbe avere una sua sacralità. Anche per quanto riguarda lo sport, la qualità della scuola dovrebbe misurarsi secondo criteri e numeri diversi da quelli di un medagliere. Il suo obiettivo dovrebbe essere educare alla cittadinanza, a uno stile di vita sano, a un’alimentazione equilibrata, a una cultura del movimento che nelle classifiche europee ci vede regolarmente ben al di sotto delle posizioni che occupiamo nei medaglieri olimpici.

Il Coni, che dal 2010 ha scoperto l’alfabetizzazione motoria all’interno della scuola italiana e lo ha fatto a suon di milioni di euro pubblici (metà l’ha messa il ministero dell’Istruzione, l’altra metà il Coni, ma sempre soldi pubblici sono), in questi ultimi anni ha iniziato a drenare risorse da ministeri ed enti locali anche per molte altre attività, iniziative ed eventi, che nulla hanno a che vedere con il proprio fine statutario (tipo i centri estivi, gli Educamp, cui il ministero dell’Istruzione, anche in questo caso, ha dato generosamente una mano). Un medagliere scarno, che non è la fine del mondo, non può trasformarsi per il Coni in un pretesto per allargarsi ancora, colonizzando spazi che dovrebbero competere piuttosto a una politica dello sport al passo con l’Europa, dove i comitati olimpici fanno i comitati olimpici (e quindi si misurano con medaglieri e piazzamenti) e dove la scuola, l’associazionismo, lo sport diffuso, la cultura del movimento vengono garantiti, sostenuti e indirizzati dal governo nazionale.

Razionalizzare le risorse destinate allo sport di vertice e di prestazione, esaltare le straordinarie competenze presenti nelle federazioni nazionali e ridurre drasticamente sprechi e rendite di posizione. Chi avrà la delega allo sport nel nuovo governo Renzi dovrà garantire questo impegno, congiuntamente al ripensamento profondo e radicale di un modello che nelle sue fondamenta data al 1942 e che ogni giorno di più mostra la propria inadeguatezza. Un’inadeguatezza che in tempi di crisi economica si sta trasformando in una pericolosa quanto dannosa occupazione dei luoghi della promozione sportiva, che non possono e non devono competere al Coni.

Il Coni opera in regime di monopolio, ma regola e giudica un regime concorrenziale, che è quello degli enti di promozione sportiva. Nel momento in cui decide di farsi esso stesso soggetto di promozione sportiva di base, diventa giudice e concorrente. Siamo in presenza di un’alterazione pericolosa e dannosa dei principi più elementari di un confronto regolare tra pari. Sia chiaro: un sistema dello sport di vertice che funziona è fondamentale. Quando un atleta azzurro sale sul podio regala a milioni di italiani una sensazione di esaltazione e appartenenza che è un valore in sé. Ma in ogni angolo del paese ci sono milioni di atleti, tecnici, dirigenti dello sport di base che lavorano ogni giorno con l’unico scopo di dare a tutti l’opportunità di provarci. In quei luoghi, spesso non a norma, inadeguati, precari, nessuno va a fare “reclutamento” e i risultati non si misurano e non devono misurarsi con un medagliere quadriennale.

Il governo deve avere il coraggio di sognare un paese che misura il proprio grado di civiltà sportiva fuori dalle logiche dei medaglieri e dei proclami altisonanti. Lo sport di cittadinanza deve essere una politica nazionale, che non può più essere delegata a chi, per un congenito difetto di prospettiva, scambia la scuola pubblica per un luogo di reclutamento di future medaglie d’oro.